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Riflessi nello sguardo e nella voce di Woody Guthrie

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All you can write is what you see!

Woody Guthrie nasce a Okemah (Oklahoma) nel 1912 e muore, consumato dal morbo di Huntington, al Creedmoor State Hospital a New York nel 1967. Nell’arco di 55 anni di vita, Guthrie ha attraversato anni che possiamo definire fondamentali per la storia degli Stati Uniti - e non solo - gli anni che hanno traghettato l’America verso quella che alcuni storici definiscono come «Era atomica», espressione coniata dal giornalista del «New York Times» William L. Laurence nel 1946. Woody è passato attraverso due guerre mondiali, la crisi del ’29 - forse la crisi economica più crudele del ‘900 - le migrazioni interne causate dalla siccità e dalle tempeste di polvere che si scatenarono nel Sud-ovest degli Stati Uniti negli anni’30, le grandi dighe e le grandi opere del New Deal rooseveltiano, gli scioperi e le rivolte popolari e la diffusione delle idee anarchiche, socialiste e comuniste del primo ventennio del ‘900, fino alla caccia alle streghe operata dal maccartismo, e ancora la nascita delle prime comuni Beat lungo il «Topanga Canyon» e le proteste in favore dei movimenti per i diritti civili degli anni ’50 e ’60. Anni di grandi trasformazioni sociali, politiche ed economiche, che Woody ha registrato con metodo e precisione sui suoi taccuini e sui suoi diari, fissando le sue impressioni in forma di disegno, di pensieri sparsi, di strofe di canzoni o sulle pagine dei suoi romanzi e dei tanti articoli pubblicati sul People’s Daily World in una rubrica intitolata «Woody Sez».
Considerato il padre della canzone americana di impegno sociale, Woody ha rappresentato la maggior fonte di ispirazione per artisti come Pete Seeger, Bob Dylan, Ramblin’ Jack Elliott, Phil Ochs, Bruce Springsteen, Joan Baez, dapprima e Steve Earle, Jeff Tweedy, Billy Bragg, Mary Gauthier, Ani Di Franco e tanti altri successivamente, non solo per i temi trattati nelle sue canzoni, ma anche e soprattutto per quel particolare sguardo con cui osservava l’America passargli davanti. Uno sguardo che non si lasciava certo abbagliare dalle luci al neon delle insegne luminose delle grandi città, o dalle cromature luccicanti delle Cadillac che scivolavano radiose lungo le Highways, bensì uno sguardo che, come una mano amichevole, si allungava verso chi si trovava a vivere sul lato meno luminoso del Sogno Americano.

Potrei dirti per certo dove saranno i guai/Perché sembra proprio che i guai mi seguano ovunque/Potranno essere laggiù vicino al picchetto degli scioperanti/Dai, troviamoci là dove i guai sono di casa!/Sono nato la stessa notte in cui sono nati i guai/vengo dal medesimo letto da cui provengono i guai/ci potrebbe cadere addosso la tua finestra da un momento all’altro/Dai, troviamoci là dove i guai sono di casa!

Biografi e storici ci raccontano che la vita di Woody Guthrie non fu sempre facile, come si evince anche dalle parole della canzone Where Trouble Is At citate più sopra, e che ci forniscono anche un esempio di quel tratto ironico utilizzato spesso da Guthrie per sorridere dei suoi guai, facendo propri i canoni di quell’umorismo di frontiera così caro a Mark Twain. Fin da subito infatti Woody dovette fare i conti con una famiglia perseguitata dai guai (la perdita di una sorella durante un incendio che distrusse la casa di famiglia, la rovina economica del padre, la malattia mentale della madre che rischiò essa stessa di morire nel corso di un ulteriore incendio che colpì i Guthrie), famiglia che Woody abbandonò presto per dedicarsi a una vita caratterizzata da un inguaribile nomadismo cronico. Nei primi anni del suo vagabondare, Woody si guadagnò da vivere dipingendo scritte artistiche sulle vetrine e sulle insegne dei negozi.

Le migliaia di giorni, le centinaia di città, le miglia di vernice stesa, le righe tirate con gessi e matite colorate sulle vetrine, sui pannelli, sui muri, sulle case, sulle staccionate e sui tetti. Sui camion. Quando il sole è così rovente che ti ribalta o quando il vento è così forte che ti tira giù. Ho usato i miei pennelli per mettere insieme due fagioli con un po’ di pane.

Dotato di una notevole abilità pittorica, quando non arricchiva di colori e ghirlande le vetrine dei negozi, Woody fissava sulla carta dei suoi innumerevoli taccuini il mondo che gli scorreva davanti agli occhi. E non era un mondo facile quello che Woody attraversava, correndo da una parte all’altra degli Stati Uniti, prendendo i treni merci al volo, consumando le suole delle scarpe su strade polverose e infinite, dove prendere un passaggio all’autostop era un lusso raro. Quello che Woody vedeva era un paese in trasformazione, proiettato verso una modernità sfrenata, dove a pagare il prezzo più caro di questo scintillante American Dream in-progress erano soprattutto le persone più umili, più deboli, più emarginate, meno scolarizzate e professionalmente meno preparate. Lui stesso, nativo di quell’Oklahoma che aveva conosciuto l’esodo di centinaia di migliaia di poor whites, si era ritrovato a camminare verso una California tanto attraente quanto inospitale, aveva iniziato a tradurre in schizzi a matita e disegni, il dolore dipinto in quegli occhi carichi di disperazione, gli stessi occhi che ritroviamo fissati dai «Sali d’argento» sulla carta fotografica da Dorothea Lange e Walker Evans. Lange e Evans furono i due fotografi americani incaricati dalla Farm Authority Administration di documentare lo stato delle popolazioni americane che risiedevano negli stati del Sudovest, flagellati dalle tempeste di polvere che si abbatterono su quelle terre dalla metà degli anni ’30 del secolo scorso e che causarono l’esodo di centinaia di migliaia di contadini verso la California. Quei contadini vennero chiamati Okies (diminutivo di abitante dell’Oklahoma) ed entrarono nell’immaginario collettivo con l’appellativo di poor whites (poveri bianchi). Ma se lo sguardo dei fotografi della Farm Security Administration è focalizzato a documentare e a catalogare immagini per fini organizzativi e amministrativi, quello di Woody è uno sguardo di compassione e condivisione, di identificazione e di partecipazione: uno sguardo che sembra dire «sono con voi, cammino con voi, sono uno di voi e lotterò con voi per migliorare la vostra condizione». Lo sguardo di Woody verso gli esclusi dal «Sogno Americano» non si fermerà con l’esodo degli Okies, ma si trascinerà fuori dai campi profughi della California per riversarsi lungo le Boweries delle periferie delle grandi città, per incontrare gli occhi di quanti aspettano ancora il passaggio di quel «treno che viaggia verso la Gloria», stringendo in mano un biglietto sbiadito. Bound for Glory oltre al titolo della sua autobiografia, è anche il titolo di una canzone che Woody Guthrie scrisse negli anni ’40 del Novecento, in cui si racconta di questo treno che viaggia verso la «Gloria» e che non trasporta giocatori d’azzardo, prostitute, assassini, imbroglioni e farabutti di ogni sorta, ma solamente i giusti e le persone per bene.I loro occhi sono pieni di attesa e di speranza, prima o poi quel treno si fermerà a raccogliermi - pensano - e come il Midnight Special mi illuminerà col suo potente faro. Il Midnight Special era un treno che viaggiava lungo una ferrovia che si chiamava Illinois Central Railway e attraversava lo stato del Mississippi, ma è anche il protagonista di una canzone di Leadbelly del 1946. Nella canzone si narra che se il faro della locomotiva del convoglio, passando accanto al penitenziario, ti illuminava il volto mentre eri aggrappato alle sbarre della finestra, era certo che entro breve saresti stato rilasciato e per arrivare al perseguimento di quella Happiness che è il caposaldo su cui si fonda questo Grande Paese. Paese che ognuno, col proprio lavoro, col proprio sacrificio e col proprio sangue ha contribuito a creare e a mandare avanti come sancisce la Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti d’America del 4 luglio 1776: «Riteniamo che queste verità siano evidenti, che tutti gli uomini sono creati uguali, che sono dotati dal loro Creatore di alcuni Diritti inalienabili, che tra questi ci sono la Vita, la Libertà e il perseguimento della Felicità».

Non sopporto quelle canzoni che ti fanno pensare che non sei bravo a far niente… destinato a perdere. Non fanno bene a nessuno. Non fanno bene per niente. O perché sei troppo vecchio o troppo giovane o troppo grasso o troppo magro o troppo brutto o troppo questo o troppo quello… Canzoni che ti buttano a terra o canzoni che ti prendono in giro per via della tua sfortuna o del tuo duro viaggiare. Sono pronto a combattere queste canzoni fino all’ultimo respiro e fino alla mia ultima goccia di sangue. Sono pronto a cantare canzoni che ti dimostrino che questo è il tuo mondo e anche se ti ha colpito piuttosto forte e ti ha fatto cadere per una dozzina di volte, non importa quanto duramente ti abbia sbattuto per terra o ti sia rotolato addosso non importa di che colore sia la tua pelle, quale taglia porti e come sei fatto, io sono pronto a cantare le canzoni che ti rendono orgoglioso di quello che sei e del tuo lavoro. E le canzoni che canto, per la maggior parte, sono fatte di persone di ogni tipo, persone proprio come te.

Per tradurre in forma scritta tutto quello che gli occhi di Woody erano riusciti a vedere, per tradurre in canzone quei disegni e quei pensieri sparsi abbozzati sui taccuini, oltre al testo era necessario trovare una musica e su quella accordare una voce capace di dar fiato a quanti non avevano o non potevano far sentire la propria. La voce di Woody era perfetta per questo ruolo, perché non era una voce dolce ma era una voce «aspra e nasale», come la definì Steinbeck, che andava contro i canoni estetici comunemente condivisi e strombazzati da una costa all’altra degli Stati Uniti attraverso le onde delle migliaia di stazioni radio che diffondevano canzonette commerciali nell’etere.E proprio la radio fu il medium attraverso cui la voce di Woody poté diffondersi nei campi profughi, nei bar delle periferie, nelle sedi del sindacato e nelle stanze delle comunità italiane, polacche, tedesche, sudamericane, e quelle canzoni diventarono canzoni di protesta e di lotta, canzoni che raccontavano la fatica del lavoro, la difficoltà a vivere con quelle misere paghe, la dignità troppo spesso calpestata.

E dove c’era una protesta, dove c’era un gruppo di persone in lotta per difendere i propri diritti o il proprio lavoro, dove c’era un fatto di cronaca che meritava di essere portato in primo piano, o dove ancora c’era da raccontare il martirio di Sacco e Vanzetti, i cantieri delle grandi dighe in costruzione sul fiume Columbia o rincuorare le truppe americane impegnate a liberare l’Europa dai nazifascisti, lì c’era Woody, «con la sua voce aspra e nasale e la sua chitarra penzolante dal collo come un ferro da gommista appeso a un vecchio cerchione arrugginito»

…la parola è la musica e le persone sono la canzone

La voce di Woody non si è mai spenta, le sue canzoni hanno continuato a girare nei concerti sia in America che nel resto del mondo. Dai protagonisti del Folk Revival degli anni ’60 del secolo scorso, fino a oggi, la lista degli interpreti che hanno cantato i suoi versi è sterminata.A partire dal 1993, Nora Guthrie, figlia di Woody, ha recuperato, raccolto, catalogato, organizzato e archiviato tutto il materiale grafico, e non solo, prodotto dal padre nel corso della sua vita, e ha costituito i Woody Guthrie Archives, dapprima a New York City e poi a Tulsa in Oklahoma, in uno spazio dove ogni foglio di carta, ogni pagina di diario, ogni disegno vergato dalla mano di Woody, così come ogni spartito e ogni registrazione sonora e ogni pubblicazione che abbia a che fare con lui, è a disposizione per la consultazione da parte di studiosi e appassionati. Questo lavoro certosino di recupero e archiviazione ha dato nuova linfa e nuova vita alle parole di Woody, infatti negli ultimi vent’anni un gran numero di autori e compositori americani ed europei, ha attinto a piene mani da quegli archivi, facendo affiorare testi inediti che hanno trovato nuove voci e nuove melodie. A partire dalla fine degli anni ’90 del ‘900, gli inediti di Woody messi a disposizione dalla figlia Nora a vari artisti hanno generato una serie di album estremamente interessanti, anche perché hanno portato alla luce aspetti di Guthrie assolutamente inusuali e inaspettati, offrendoci un’immagine dell’artista assai più complessa e svincolata da quel cliché di workingman hero a cui lo aveva relegato una certa critica musicale fortemente ideologizzata. Su tutto e su tutti prevale uno spirito libero, curioso, anticonvenzionale e pronto a sfidare e a sfidarsi sui terreni più disparati: dalle meditazioni sul destino dell’uomo dopo la morte, fino alle feste religiose ebraiche, temi dolorosi come la Shoah e momenti di leggera evasione come le canzoni dedicate a Ingrid Bergman8. É in tempi come questi, così veloci, autoreferenziali e pericolosamente superficiali, che quelle parole, quelle musiche, quelle voci aiutano a tenere vivo in tutti noi quel particolare sguardo con cui Woody ci ha insegnato a guardare il mondo, a capire da che parte stare, e a continuare a cantare per dare voce a chi voce non ha, finché avremo fiato in gola e sangue nelle vene.