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John Dewey e David Graeber. Elementi di democrazia radicale nel pensiero pragmatista e anarchico

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Quando si pensa all’idea di democrazia radicale, gli scritti di John Dewey non sono probabilmente il primo esempio che viene in mente. Il suo concetto di democrazia è stato invece spesso liquidato come «liberale» (Talisse 2007) o come un primo esempio di democrazia deliberativa (cfr. Bacon 2010). A fronte di queste nozioni, in questo articolo voglio esplorare la natura radicale della narrazione deweyana della democrazia. La mia tesi principale è che gli elementi radicali vengono in primo piano se analizziamo il concetto di democrazia di Dewey nel suo contesto storico. Questo può aiutarci a capire il suo concetto di democrazia radicale per quello che era: un intervento nel dibattito sul ruolo della democrazia per la sinistra. Partendo da questi presupposti, sviluppo e difendo la tesi che l’idea di democrazia di Dewey è radicale nella misura in cui è stata concepita contro una concezione marxista ortodossa della rivoluzione e della trasformazione sociale. L’articolo si conclude delineando come questo rifiuto del marxismo ortodosso avvicini Dewey a un resoconto anarchico della democrazia radicale, così come è stato recentemente formulato da David Graeber (2013), ed evidenziando i parallelismi tra i concetti di democrazia radicale di Dewey e di Graeber per quanto riguarda la priorità dei mezzi sui fini, il ruolo della deliberazione e la necessità di una riforma istituzionale.

La democrazia radicale in Dewey

Nel gennaio 1937 Dewey pubblicò sulla rivista «Common Sense» un saggio poco conosciuto dal titolo La democrazia è radicale. La missione di «Common Sense» è stata descritta da uno dei suoi redattori come quella di «trovare un posto indipendente sia dal vecchio liberalismo sia dal marxismo intellettuale di recente moda» (Strassel 2007: 4) e, come sosterrò più avanti, l’articolo di Dewey può essere letto anche come un tentativo di lasciarsi alle spalle questo dualismo. In La democrazia è radicale Dewey inizia facendo esplicito riferimento a questo contesto, evidenziando le profonde differenze intellettuali e strategiche della sinistra negli anni Trenta:

«Tra i gruppi di sinistra c’è relativamente poca differenza per quanto riguarda i fini sociali da raggiungere. C’è una grande differenza sui mezzi con cui questi fini dovrebbero essere raggiunti e con cui possono essere raggiunti» (Dewey 1987: 296).

Dewey condivide la critica diffusa delle democrazie «borghesi» e riconosce che

«L’ascesa dei governi democratici ha accompagnato il trasferimento delpotere dagli interessi agrari a quelli industriali e commerciali» (ibid.).

In questo senso, egli rifiuta anche il liberalismo europeo che si limita a «sforzarsi di ottenere il massimo dell’azione economica individualistica con un minimo di controllo sociale» (ibid.). Poi contrappone questa insufficiente versione europea del liberalismo alla più radicale versione americana:

«Negli Stati Uniti il liberalismo ha un’origine, un’impostazione e un obiettivo diversi. È fondamentalmente un tentativo di realizzare modi di vita democratici nel loro pieno significato e nella loro ampia portata» (ibid.: 298).

Sebbene l’argomentazione di Dewey possa essere considerata anche una difesa del liberalismo radicale (cioè americano), egli preferisce parlarne in termini di democrazia. Dewey si spinge fino a mostrare come l’essenza della democrazia radicale possa essere identificata nell’enfasi primaria sui mezzi democratici:

«I mezzi a cui si dedica [la democrazia, NdA] sono le attività volontarie degli individui in opposizione alla coercizione; sono assenso e consenso in opposizione alla violenza; sono la forza dell’organizzazione intelligente contro quella dell’organizzazione imposta dall’esterno e dall’alto. Il principio fondamentale della democrazia è che i fini della libertà e dell’individualità di tutti possono essere raggiunti solo con mezzi conformi a tali fini» (ibid.).

Suggerire che questo principio fondamentale della democrazia possa essere temporaneamente sospeso, ad esempio dalla dittatura di una classe, è per Dewey una «ipocrisia intellettuale e una contraddizione morale» (ibid.). Nel concludere il suo breve saggio, Dewey offre infine tre ragioni per cui una simile idea della democrazia può essere considerata radicale. In primo luogo, perché stabilisce un fine radicale

«che non è stato adeguatamente realizzato in nessun Paese in nessun momento» (ibid.: 299).

Questa idea è stata elaborata in modo esauriente nelle osservazioni conclusive di un articolo molto più importante di Dewey sulla democrazia creativa:

«Poiché non può avere fine finché l’esperienza stessa non avrà fine, il compito della democrazia è sempre quello di creare un’esperienza più libera e più umana, alla quale tutti partecipano e alla quale tutti contribuiscono» (Dewey 1998: 343).

In altre parole, la democrazia è radicale per Dewey perché non ha un punto di arrivo che possa essere «raggiunto». Si tratta invece di un processo infinito in cui le condizioni della democrazia devono essere continuamente esercitate e perfezionate attraverso la creatività e l’intelligenza collettiva. In secondo luogo, una tale concezione della democrazia è radicale perché

«richiede un grande cambiamento nelle istituzioni sociali, economiche, legali e culturali esistenti» (Dewey 1987: 299).

In terzo luogo, per Dewey non c’è

«nulla di più radicale dell’insistenza sui metodi democratici come mezzo per realizzare cambiamenti sociali radicali».

Tanto più che «ora abbiamo le risorse per avviare un sistema sociale di sicurezza e opportunità per tutti» (ibid.). L’insieme di queste ragioni evidenzia come Dewey sia giunto al verdetto che la democrazia è un’impresa fondamentalmente radicale. La sezione successiva farà luce sul contesto storico di queste idee e discuterà di come la concezione della democrazia di Dewey sia stata ulteriormente elaborata in un dibattito con uno dei più importanti pensatori e praticanti politici radicali del suo tempo. Nell’aprile del 1937, pochi mesi dopo la scrittura del suo breve saggio La democrazia è radicale, Dewey divenne presidente della Commissione d’inchiesta sulle accuse mosse a Leon Trotsky nel processo di Mosca (cfr. Farrell 1950). I suoi incontri con Trotsky in Messico portarono a un dibattito tra i due pensatori sul ruolo dei mezzi e dei fini per la trasformazione sociale, che oggi sembra essere quasi dimenticato. Ma per noi questo dibattito è di estremo interesse perché illumina il contesto storico in cui Dewey ha formulato la sua idea di democrazia radicale. Nel saggio La loro morale e la nostra, scritto nel febbraio 1938, Trotsky espone la sua concezione della morale per respingere l’idea che lo stalinismo e il trotskismo siano essenzialmente sostenuti dallo stesso amoralismo marxista. Egli rifiuta la massima secondo cui il fine giustifica tutti i mezzi e la contrappone allasua concezione dell’interdipendenza dialettica tra fine e mezzi:

«Un mezzo può essere giustificato solo dal suo fine. Ma il fine a sua volta deve essere giustificato. Dal punto di vista marxista, che esprime gli interessi storici del proletariato, il fine è giustificato se porta ad aumentare il potere dell’umanità sulla natura e sugli interessi storici del proletariato e ad abolire il potere di una persona sull’altra» (Trotsky 1979: 48).

Secondo questa concezione, un mezzo è consentito solo se «conduce realmente alla liberazione dell’umanità» (ibidem). Trotsky afferma inoltre che questo è un fine che può essere raggiunto solo attraverso la rivoluzione e che la morale liberatrice del proletariato

«deduce una regola di condotta dalle leggi dello sviluppo della società, quindi in primo luogo dalla lotta di classe, la legge di tutte le leggi» (ibid.).

Nella sua risposta Mezzi e fini, scritta nel luglio 1938, Dewey concorda con l’opinione di Trotsky secondo cui mezzi e fini sono interdipendenti. Ma lasua posizione si presenta sotto forma di un consequenzialismo più rigoroso:

«Ritengo che il fine, nel senso di conseguenze, sia l’unica base per le idee e le azioni morali, e quindi l’unica giustificazione che si possa trovare per i mezzi impiegati» (Dewey 1979: 68).

Secondo Dewey, Trotsky ha violato i suoi stessi principi di interdipendenza e consequenzialità introducendo esternamente la lotta di classe come legge della società.

«Perché la scelta dei mezzi [per Trotsky, NdA] non è decisa sulla base di un esame indipendente delle misure e delle politiche rispetto alle loro effettive conseguenze oggettive. Al contrario, i mezzi sono “dedotti” da una fonte indipendente, una presunta legge della storia che è la legge di tutte le leggi dello sviluppo sociale» (ibid.: 70).

La posta in gioco non è che Dewey rifiuti la lotta di classe come possibile via per raggiungere un certo fine, ad esempio la liberazione dell’umanità. Invece, egli confuta l’assolutismo dogmatico che elude il principio rigoroso del consequenzialismo:

«La posizione che ho indicato come quella di un’autentica interdipendenza tra mezzi e fini non esclude automaticamente la lotta di classe come uno dei mezzi per raggiungere il fine. Ma esclude il metodo deduttivo per arrivarci come mezzo, per non dire che è l’unico mezzo. La scelta della lotta di classe come mezzo deve essere giustificata, sulla base dell’interdipendenza tra mezzi e fini, da un esame delle conseguenze effettive del suo uso, non in modo deduttivo» (ibid. 71).

Nel difendere la stretta interdipendenza tra mezzi e fini, Dewey difende ed elabora anche il suo concetto di democrazia radicale. Suggerisco quindi che il concetto di democrazia radicale di Dewey come interdipendenza consequenziale e infinita di mezzi e fini dovrebbe essere intesa come una reazione al marxismo ortodosso. Mentre Trotsky ha sostenuto che la sua versione del marxismo è fondamentalmente diversa dallo stalinismo, Dewey rifiuta questa differenziazione quando sottolinea il loro terreno comune:

«Sembra esserci un curioso trasferimento di fedeltà tra i marxisti ortodossi dagli ideali del socialismo e dai metodi scientifici per raggiungerli […] alla lotta di classe come legge del cambiamento storico» (ibid.: 73).

Dopo aver presentato questo contesto storico, sarebbe probabilmente una procedura standard etichettare le idee di Dewey come un classico esempio di antimarxismo di un socialista democratico. Credo che ci siano due punti che ci ricordano di fare attenzione a trarre conclusioni così rapide. In primo luogo, vi sono alcune sorprendenti analogie tra l’argomentazione di Dewey e il pensiero di Marx che confutano la semplice tesi antimarxista. In secondo luogo, è importante notare che una critica del marxismo ortodosso, così come viene portata avanti da Dewey, non è necessariamente anti-marxista. Come dimostra l’esempio del marxismo occidentale, una simile critica può essere sviluppata anche su basi marxiste (cfr. Anderson 1976). La prossima sezione si propone di cercare ulteriori prove a sostegno della tesi che la democrazia radicale di Dewey debba essere letta come una risposta al marxismo ortodosso, confrontandola con un’altra scuola di pensiero che si è sviluppata in contrasto con il dogmatismo marxista: l’anarchismo.

Democrazia pragmatica e anarchia a confronto

Negli ultimi anni David Graeber si è imposto come uno dei più importanti pensatori anarchici contemporanei, soprattutto dopo il suo importante coinvolgimento nel movimento Occupy Wall Street. Nel suo libro Progetto democrazia. Un’idea, una crisi, un movimento, Graeber ha recentemente presentato non solo un’analisi concisa del movimento Occupy, ma anche una storia e teoria della democrazia da una prospettiva anarchica che servirà da contrasto al concetto di democrazia di Dewey. Graeber definisce la democrazia non come una forma concreta di governo inventata nell’antica Grecia, ma come la convinzioneù

«che gli esseri umani sono fondamentalmente uguali e dovrebbero essere autorizzati a gestire i loro affari collettivi in modo egualitario utilizzando i mezzi che appaiono più favorevoli» (Graeber 2013: 184).

In quanto tale, la democrazia è considerata più simile a uno spirito o a una sensibilità antica «quanto la stessa intelligenza umana» (ibid.). Questa concezione ampia della democrazia porta a due conseguenze sorprendenti: in primo luogo, la democrazia non è considerata un ideale astratto, ma qualcosa che deve essere sperimentato e praticato. In secondo luogo, la democrazia

«non è necessariamente definita dal voto a maggioranza: è, piuttosto, il processo di deliberazione collettiva sul principio della piena ed equa partecipazione» (ibid.: 186).

Per Graeber, questa è una concezione della democrazia che recentemente (e storicamente) è stata avanzata soprattutto dagli anarchici. Secondo la sua concezione, il fulcro della democrazia anarchica è che nessuno abbia la possibilità

«in qualsiasi momento, di chiedere a uomini armati di presentarsi e dire: “Non mi interessa quello che hai da dire su questo; stai zitto e fai quello che ti viene detto”» (ibid.: 188).

I paralleli con la concezione della democrazia di Dewey sono già evidenti in queste poche osservazioni. Questi paragrafi conclusivi li discuteranno sulla base delle tre caratteristiche che per lui definiscono il carattere radicale della democrazia, come sopra delineato: (1) democrazia come processo senza fine, (2) democrazia che richiede una trasformazione radicale delle nostre istituzioni sociali e (3) democrazia come principio di raggiungimento di fini democratici solo con mezzi democratici.

La democrazia radicale come processo senza fine

Come Graeber, Dewey ha identificato la democrazia non come una forma di governo, ma come uno stile di vita che non può avere «fine finché l’esperienza stessa non giunge al termine» (Dewey 1998: 343). È quindi sbagliato, sia da una prospettiva pragmatista che anarchica, parlare di un’invenzione della democrazia, poiché in questo senso «la democrazia è vecchia come la storia» (Graeber 2013: 184). Se la democrazia non ha un inizio, non può nemmeno avere una fine. Sia Dewey che Graeber hanno quindi sottolineato che i processi democratici, vale a dire i processi di intelligenza e di indagine collettiva, non dovrebbero essere interrotti da semplici mezzi di potere. Mentre Graeber ha concettualizzato questo pensiero nell’idea anarchica di una società libera in cui è impossibile per chiunque chiamare uomini armati per mettere a tacere le voci dissenzienti, Dewey ha evidenziato la stessa idea come l’importanza di un’indagine costante e di uno sperimentalismo, dedicato a mezzi che siano:

«attività volontarie degli individui in opposizione alla violenza; […] assenso e consenso in opposizione alla violenza; […] la forza dell’organizzazione intelligente contro quella dell’organizzazione imposta dall’esterno e dall’alto» (Dewey 1987: 298).

È inoltre sorprendente l’analogia nel modo in cui sia Dewey che Graeber hanno tradotto nella loro pratica (politica) l’idea teorica di democrazia come processo continuo di deliberazione (in cui tutti hanno il diritto di essere ascoltati). Mentre Graeber ha avuto un ruolo importante e di primo piano nel movimento di Occupy, una convinzione simile ha portato Dewey alla decisione di dirigere la commissione che ha esaminato le accuse contro Trotsky. Come disse durante la prima sessione di audizioni della commissione:

«Se alla fine ho accettato il posto di responsabilità che ora occupo, è stato perché mi sono reso conto che agire diversamente sarebbe stato falso nei confronti del mio lavoro di una vita» (Commissione preliminare d’inchiesta 1937: 5).

Democrazia radicale e istituzioni radicali

Come ricordiamo, il secondo criterio di Dewey per cui la democrazia è radicale è il fatto che «richiede un grande cambiamento nelle istituzioni sociali, economiche, legali e culturali esistenti» (Dewey 1987: 299). Graeber sottolinea analogamente l’importanza delle istituzioni democratiche come condizione necessaria per una democrazia radicale stabile e sostenibile. Con un linguaggio genuinamente pragmatico,egli pone al centro di ogni progetto democratico la seguente domanda:

«Quali accordi sociali sarebbero necessari per avere un sistema autentico, partecipativo e democratico che possa dedicarsi alla soluzione di problemi collettivi?» (Graeber 2013: 205).

Le risposte che Graeber e Dewey offrono a questa domanda sono straordinariamente simili, in quanto mettono al centro la deliberazione, l’improvvisazione e la risoluzione creativa dei problemi. Allo stesso modo, entrambi sono consapevoli del fatto che questi principi non possono prevenire completamente i conflitti o farli scomparire. Invece vedono i loro concetti di democrazia come un modo per affrontare tali conflitti. Come ha sostenuto Richard Bernstein:

«La questione principale […] è sempre il modo in cui rispondiamo al conflitto. Ed è qui che Dewey sottolinea il “ruolo della consultazione, della conferenza, della persuasione, della discussione nella formazione dell’opinione pubblica”» (Bernstein 2010: 85).

Allo stesso modo, Graeber ha sottolineato come il suo approccio consideri i conflitti come processi di «risoluzione dei problemi piuttosto che come una lotta tra interessi fissi» (Graeber 2013: 205). Tuttavia, sia Dewey che Graeber non riescono a descrivere nel dettaglio queste istituzioni e le forme di organizzazione a cui potrebbero portare. Secondo entrambi gli autori, questo non è necessariamente un difetto della loro teoria, ma anzi deriva naturalmente da essa. Sebbene Graeber fornisca lunghi resoconti su come si possono organizzare i processi basati sul consenso, afferma anche di essere

«meno interessato a elaborare l’architettura dettagliata di una società libera piuttosto che a creare le condizioni che ci permetterebbero di scoprirlo» (ibid.: 193).

In questo contesto la sua posizione sembra più coerente di quella di Dewey, che a volte si sposta su posizioni idealistiche e individualistiche per difendere la sua idea di democrazia come stile di vita che non può essere incasellato in un certo insieme di contesti istituzionali e organizzativi:

«Perché liberarsi dall’abitudine di pensare alla democrazia come a qualcosa di istituzionale ed esterno e acquisire l’abitudine di trattarla come un modo di vivere personale significa rendersi conto che la democrazia è un ideale morale e, nella misura in cui diventa un fatto, è un fatto morale. È rendersi conto che la democrazia è una realtà solo in quanto è un luogo di vita comune» (Dewey 1998: 342).

Democrazia radicale, mezzi e fini

La terza caratteristica, per cui la democrazia era radicale per Dewey, era la conseguente interdipendenza tra mezzi e fini. Egli ha persino definito «principio fondamentale della democrazia» il fatto che «i fini della libertà e dell’individualità per tutti possono essere raggiunti solo con mezzi che si accordino con tali fini» (Dewey 1987: 298). È interessante notare che Graeber assegna lo stesso atteggiamento all’anarchismo e alla sua stessa concezione di democrazia radicale:

«Gli anarchici insistevano sul fatto che non solo il fine non giustifica i mezzi […] ma che non si raggiungeranno mai i fini a meno che i mezzi non siano essi stessi un modello del mondo che si vuole creare» (Graeber 2013: 190).

Proprio come Dewey, che sviluppò appieno questa idea nello scambio con il marxismo ortodosso personificato da Trotsky, anche Graeber sottolinea come sia stato il rifiuto del marxismo ortodosso (e del suo obiettivo di conquistare lo Stato) a innescare questa sensibilità anarchica per l’interdipendenza tra mezzi e fini. Ciò che è fondamentale notare, tuttavia, è che l’enfasi di Dewey e Graeber sui mezzi democratici per raggiungere fini democratici non solo condivide il rifiuto del marxismo ortodosso, ma anche una profonda critica del razionalismo. Nelle teorie razionaliste dell’azione, gli esseri umani hanno dei fini fissi e si limitano a contemplare i mezzi più efficienti e razionali per raggiungere questi scopi (Jonas 1993). Graeber rifiuta questa idea e critica le concezioni «razionali» della democrazia:

«Se definiamo la razionalità come un calcolo matematico distaccato che nasce dal potere di impartire comandi, questo tipo di “razionalità” inevitabilmente produrrà mostri. Come base per un vero sistema democratico, questi termini sono chiaramente disastrosi. Ma qual è l’alternativa? Come fondare una teoria della democrazia sul tipo di ragionamento che si svolge, invece, tra pari?» (Graeber 2013: 199).

Secondo Graeber, per rispondere a questa domanda è necessaria una forma più ampia di «ragionevolezza», che renda conto del modo in cui vengono fatti i compromessi e che abbandoni il livello formalizzato della stretta razionalità. Nel cercare una soluzione, fa riferimento alle critiche femministe alla ragione e alla razionalità e vi trova un «principio di ragionevolezza» basato sul consenso (ibid.: 202). Sostengo che potrebbe anche rivolgersi al pragmatismo per trovare ulteriori risorse per una critica democratica radicale della razionalità. Il punto di vista di Dewey sulla reciprocità tramezzi e fini è fondamentale a questo proposito. Secondo lui:

«Non avere già in mente un fine, con l’unica domanda di come raggiungerlo. Non abbiamo una concezione completa del nostro fine finché non abbiamo una comprensione completa del corso d’azione che ci porterà lì» (Anderson 2014).

O come ha detto Hans Joas:

«Per i pragmatici, la definizione dei fini non è un atto di coscienza che avviene al di fuori dei contesti dell’azione. Piuttosto, la definizione di un fine può essere solo il risultato di una riflessione sulle resistenze incontrate dal comportamento variamente orientato di una forma di vita il cui mondo è sempre già schematizzatoin modo pratico prima di ogni riflessione» (Joas 1993: 248). Questa critica pragmatista della razionalità e la teoria dell’azione che ne consegue sono utili per descrivere i processi decisionali basati sul consenso, in cui mezzi e fini diversi devono essere costantemente esplorati e valutati in un contesto collettivo e deliberativo. Così, imparando da pragmatici come Dewey, gli anarchici come Graeber potrebbero respingere con più forza l’affermazione che le loro idee siano meramente utopiche, ma invece evidenziare che le persone agiscono e pensano sempre in questo modo nella vita di tutti i giorni per prendere decisioni e trovare compromessi (cfr. Menand 1997).

Conclusioni

In questo articolo ho sostenuto che ci sono molte somiglianze tra la concezione pragmatista della democrazia radicale sviluppata da John Dewey e quella anarchica offerta di recente da David Graeber. Ho cercato di mostrare come la concezione di Dewey dell’interconnessione tra mezzi e fini sia al centro della sua idea di democrazia radicale e come debba essere letta come una confutazione del marxismo ortodosso, un background storico che vale anche per l’anarchismo. Evidenziando infine alcune similitudini tra i due concetti di democrazia radicale, l’articolo ha anche cercato di evidenziare dove i diversi filoni di letteratura potrebbero imparare l’uno dall’altro e dove si potrebbero colmare lacune. L’impresa è stata comunque sommaria e ci sono molti punti che potrebbero essere esplorati in modo molto più dettagliato. L’ulteriore elaborazione delle idee pragmatiste e anarchiche è anche un esercizio, tuttavia, come insisterebbero sia Dewey che Graeber, che non può essere compiuto solo scrivendo ulteriori articoli, ma che deve essere esplorato ed esercitato anche nella vita pratica.

Traduzione di Marco Antonioli, The Anarchist Library, 2015