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Carcere, sovraffollamento, suicidi. Sotto i luoghi comuni dell'emergenza

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I numeri del carcere

Il 31 marzo del corrente 2024 i detenuti nelle carceri italiane erano 61.297; ma con una comprovata crescita media mensile di 330 unità, oggi, a metà luglio, avranno superato le 62 mila unità. Si tratta di un processo in decisa accelerazione. Se tra il 2020 e il 2021 l’aumento era stato di 770 unità, tra il 2021 e il 2022 era salito a 2.062, per registrare, tra il 2022 e il 2023, una crescita di 3.970 detenuti. Una tendenza che, se venisse confermata, ci porterebbe a 65 mila presenze a fine anno. Naturale corollario di tale fenomeno è la crescita del tasso di sovraffollamento, che, a fronte di una capienza regolamentare dichiarata di 5.117 posti, risulta oggi del 120%; ma se si considera che i posti di fatto per vari motivi indisponibili sono 3.640, lo stesso tasso sale a quota 125. Ma il dato nazionale si aggrava decisamente se consideriamo il valore dello stesso in alcune regioni. In Puglia siamo al 152%, in Lombardia al 144, in Veneto al 134. Per non parlare di alcune carceri, in cui il tasso di sovraffollamento giunge o tende al raddoppio: Brescia 209, Lodi 200, Taranto 185, Roma RC 181, e diverse altre situazioni simili. Abbiamo così superato i valori che, nel 2003, motivarono il cosiddetto «indultino». Ma si tratta di una tendenza che si ripete sistematicamente. Non appena le carceri si decongestionano per un qualche provvedimento, indipendentemente dal tenore dello stesso, la popolazione riprende sistematicamente a salire, anche sull’onda di un nuovo mediatizzato allarme sociale, secondo cui «le strade sono piene di delinquenti a piede libero». Così è stato dopo i provvedimenti deflattivi che sono seguiti alla condanna dell’Italia da parte della CEDU per la situazione delle nostre carceri, con la sentenza Torreggiani del 2013; così accade ora, dopo i provvedimenti, e soprattutto gli orientamenti della magistratura in occasione della recente pandemia. E ciò in modo del tutto indipendente dall’andamento della criminalità, che registra una costante decrescita. Si direbbe che le tendenze deflattive e riformatrici, anziché rappresentare un’inversione di tendenza in ambito penale e penitenziario, costituiscano paradossalmente la premessa per nuove tendenze restrittive e più decisamente repressive.

La retorica del sovraffollamento

Ritengo, per altro verso, che queste dinamiche nascondano una più insidiose logica di potere e di controllo, anche sul piano dell’opinione pubblica. L’enfasi posta sulla questione del sovraffollamento rischia di ridurre allo stesso tempo le molte problematiche che si connettono e si dispiegano all’interno e attorno al carcere, alle sue radici e funzioni sociali, all’aggravarsi delle condizioni di vita interne. Certamente gli effetti del sovraffollamento vanno considerati con attenzione e inevitabile preoccupazione. La riduzione degli spazi della vita quotidiana comporta non solo l’ovvio deteriorarsi delle condizioni igienico-sanitarie, ma anche la difficoltà di convivere a stretto contatto di un numero elevato di persone, spesso diverse per età, esperienze di vita, provenienza socio-culturale, tipo di reato e di condanna, con le inevitabili tensioni determinate dalla forzata convivenza. Vengono poi ulteriormente a diradarsi le opportunità trattamentali (lavoro, istruzione, attività culturali), con conseguente aumento dell’ozio forzato, con i suoi effetti psicologici e identitari, cui si associa l’uso più diffuso di psicofarmaci, rafforzato da un accordo, di fatto, tra i reclusi, che così rimuovono la noia e l’angoscia per il proprio stato e per inattività, e l’istituzione, che così consegue più facilmente ordine e allentamento di tensioni. Ma va anche considerato l’estendersi dei tempi di attesa per dare luogo alle procedure necessarie per ottenere le agognate misure alternative, cui conseguono il rallentamento e la riduzione della loro concessione. A fronte di ciò, è evidente che non basta stabilire gli spazi «umanitari», per una più civile convivenza (i famosi 3 mq fissati dalla Cedu), né, tanto peggio, costruire nuove carceri o attivare nuove strutture. Si tratta, piuttosto, di mettere a fuoco le cause del sovraffollamento. Le stesse sono così riassumibili: l’introduzione di norme che prevedono nuovi reati o pene più severe, la tendenza ad arrestare o meno a seconda del tipo di reati, la selettività e l’estensione dell’attività di controllo e la tendenza a denunciare da parte delle FF.OO., ma anche dei cittadini; e poi la durata della custodia cautelare, anche in relazione alla velocità di smaltimento e alla durata dei processi e alla concessione della libertà provvisoria, l’attitudine a condannare, la severità delle condanne, la concessione o meno delle misure alternative, l’attivazione o meno di programmi di reinserimento, la disponibilità o meno di risorse esterne. E ancora l’influenza che esercita su tutti questi aspetti il clima culturale e politico nelle sue varie fasi, con le relative retoriche in tema di criminalità e sicurezza. Per non dire che, al di là degli spazi disponibili, il carcere resta sempre carcere, con le coercizionie e le penose privazioni, gli effetti della stigmatizzazione e della degradazione sociale, le routine quotidiane, i rapporti di potere, i conflitti e le rigidità istituzionali, e tutto ciò che caratterizza la vita reclusa. Dunque il concorrere vasto e articolato di un insieme di fattori di carattere strutturale, che si impongono, al di là e al di sotto delle definizioni normative giuridiche, comunque sempre ben oltre gli spazi fisici disponibili. I dati sulla popolazione reclusa sono sintomo di questa complessità. Si assiste infatti, da un lato, all’invecchiamento della popolazione detenuta, con la crescita dei soggetti tra i 45 e i 60 anni; dall’altro alla presenza costante di soggetti con pene o residui pena inferiori ai tre anni, e quindi in condizione di poter ottenere una misura alternativa, superiore al 50%. Percentuale che cresce se si considera che, nella maggioranza dei casi, i benefici sono ottenibili per condanne fino ai 4 anni. Dunque severità e durata delle condanne e restrittività nella concessione delle misure alternative, anche se l’area delle stesse è ampia e in continua crescita, risultano rivestire un ruolo centrale nel continuo incremento del sovraffollamento. Va poi considerata la normativa in materia di droghe e di immigrazione, come fattore determinante di incarcerazione, con il 34% di detenuti classificati come tossicodipendenti, e il 30% di immigrati. Ma se queste variabili di ordine normativo istituzionale possono in parte spiegare il fenomeno del sovraffollamento, il complesso dei fattori che abbiamo poco più sopra ricordato conferiscono al fenomeno un carattere di strutturale automatismo, difficilmente governabile con le scelte legislative. Il carcere in quanto tale tende a riempirsi e a sovraffollarsi, sull’onda degli influssi delle cosiddette «funzioni latenti» della pena: controllo della marginalità, cultura e politiche securitarie e vendicative, automatismi istituzionali di carattere autoriproduttivo, strumentalità, politiche per il consenso, e molto altro. Se così stanno le cose, la popolazione carceraria sarà sempre e comunque destinata a crescere. Il problema non è dunque il sovraffollamento in quanto tale, ma l’insieme strutturale dei fattori che lo producono.

I suicidi Ma veniamo al secondo fenomeno che occupa le cronache e polarizza l’immaginario e l’attenzione collettiva sul carcere: i suicidi. Ad oggi, 13 luglio 2024, risultano 55. Un dato impressionante che, se continuerà con lo stesso ritmo di crescita, tenendo conto che l’estate rappresenta per le carceri il periodo più critico, porterà il fenomeno a superare, a fine anno, la quota 100. Una cifra ben superiore al picco critico, già elevatissimo, di 84 registrato nel 2022, comunque a livelli senza precedenti. Ma, anche in questo caso, il suicidio non è il principale problema del carcere. Semmai è il carcere che costituisce il principale problema del suicidio. Va infatti in primo luogo considerato come il suicidio si ponga al vertice di una escalation di comportamenti problematici, che hanno in comune il fatto di essere provocati da una reattività autodifensiva contro l’istituzione carcere. Il «ritiro dalla situazione», con l’assoluta inedia e passività, l’assunzione sistematica degli psicofarmaci, le forme patologiche di somatizzazione, gli autolesionismi, i tentati suicidi (rispettivamente 11 mila e 1.400 nel 2022), fino ai suicidi veri e propri, in drammatica crescita, rappresentano forme di resistenza alle ristrettezze dell’istituzione carceraria e di rifiuto della stigmatizzazione e della degradazione sociale operata dalla pena. Ciò fa emergere la profonda frattura tra le definizioni operate dal diritto e dalle forzature deformanti dallo stesso imposte, e il concreto vissuto dei soggetti reclusi, la sostanza della loro auto-percezione e della loro identità, del senso delle loro esperienze, motivazioni e aspirazioni. In particolare il suicidio in carcere rappresenta un estremo atto di libertà, di richiesta di riconoscimento e di affermazione del sé, contro il totale disconoscimento subito dalle definizioni penalistiche e dalle rigidità carcerarie. A dire «qui sto talmente male, che la morte è migliore». Non a caso lo stesso avviene più di frequente in circostanze in cui massima è la frattura tra il soggetto e il contesto in cui viene collocato: all’inizio della detenzione e nell’imminenza dell’uscita; in entrambi i casi in cui massima è la frattura tra l’auto-percezione soggettiva e gli imprevisti di una situazione manipolata e deformata dalle definizioni e dai provvedimenti penalistici e penitenziari. Dunque anche il suicidio, come livello estremo della scala di resistenze sopra ricordata, rimanda al carcere, in quanto tale, all’insieme delle definizioni e azioni in cui si articola la funzionalità del sistema penal-penitenziario. Il suicidio non è dunque il problema principale, ma la punta dell’iceberg dell’intero sistema. Ma soprattutto il suicidio in carcere, nella realtà di oggi, rappresenta una continuità drammatica con le condizioni di disagio, di marginalità, di fragilità e disorientamento che, oggi più che mai, caratterizzano la condizione di ampie aree sociali, rispetto alle quali la carcerazione rappresenta un passaggio tanto traumatico quanto inappropriato. Basti pensare a quanto la promessa di un facile e irrinunciabile livello di benessere e di rispettabilità sociale, rappresentato come generalizzato e a portata di mano dal linguaggio dei media e dalle interazioni sociali prevalenti, renda traumatica l’esperienza carceraria, nei termini dell’insuccesso e del fallimento.

Il carcere e la guerra

L’insieme di queste osservazioni e considerazioni ci porta inevitabilmente al tema della violenza, come dimensione diffusa nelle relazioni sociali nella società liberista, prima, e post-liberista, ora, in cui siamo immersi. Questo è il filo rosso che ci sollecita a cogliere continuità e analogie tra l’irreversibile e crescente violenza del carcere e ciò che è tornata ad occupare drammaticamente la scena mondiale in questi anni: la guerra. Il primo tema è quello dei confini tra amico e nemico. Il carcere segna il confine tra gli onesti e i disonesti, i socialmente adeguati e gli inaccettabili, i giusti e gli sbagliati, i vincenti e i perdenti, gli affidabili e i pericolosi, compattando la comunità dei normali attorno all’immagine negativa, costruita e rafforzata dall’istituzione, degli inadeguati reclusi. La guerra altrettanto segna il confine tra i paesi civili, economicamente avanzati, democratici, liberi, pacifici e i paesi arretrati, totalitari, aggressivi, fanatici, inaffidabili e pericolosi; e compatta, dietro la sua violenza «difensiva», l’identità occidentale contro nemici pericolosi per la pace e la democrazia. In entrambi i casi l’immagine estremizzata del «nemico» è motivo, come sempre è avvenuto, del rafforzamento dell’identità dominante del «giusti», eventualmente sotto la guida protettiva di un’autorità forte. Una seconda analogia è costituta dall’estremismo immobilizzante della repressione. Consideriamo la crisi irreversibile dell’istituzione carceraria, il deterioramento delle condizioni di vita, interne, e ciononostante il ricorso più esteso e prolungato al suo impiego, la crescita della violenza interna, esplicitata dalla crescita dei suicidi e dai frequenti episodi di tortura, il tutto in una cornice di ricorso più esteso alla repressione penale, con l’introduzione di nuovi tipi di reato e aggravamento delle sanzioni, nonché l’introduzione di una serie di misure repressive che animano i «pacchetti sicurezza» in molti ambiti, dall’immigrazione, all’uso di droghe, dall’occupazione di case, dal conflitto sociale fino alla devianza minorile. Tutto ciò segna un salto di paradigma rispetto all’abituale ambiguità tra repressione e assistenzialismo, tra riformismo e austera restrittività. Qui l’intervento repressivo è talmente sistematico e generalizzato, da imporne l’ovvietà, rendendo insensati e impraticabili ogni critica e tentativo di contrasto in controtendenza. Altrettanto la guerra, in Ucraina, ma anche in Medio Oriente, prosegue in modo talmente irreversibile e avulso da ogni serio tentativo di mediazione, da rientrare in una specie di ovvia normalità, che, mentre dà per scontato un incremento dell’uso della forza, ingenera assuefazione ad una sorta di convivenza, neutralizzando l’incisività dei movimenti per la pace e il riconoscimento dei diritti dei popoli. Sia carcere che guerra tendono così a imporre la violenza esercitata su un generalizzato assenteismo di massa, rafforzato da un dilagante senso di impotenza. Infine la terza analogia si può cogliere in quanto carcere e guerra risultano indicatori del più generale contesto sottostante. Infatti sia la guerra che il carcere rappresentano, pur in modo diverso, la «punta dell’iceberg» di un insieme complesso di fattori e di problematiche, di cui sono espressione. La guerra è la punta dell’iceberg del sistema di interessi economici e politici, dei rapporti di potere nella sfera della geopolitica, delle strategie conflittuali di costruzione/decostruzione degli equilibri tra forze in campo. Altrettanto il carcere, con il suo rafforzarsi nonostante e attraverso la sua crisi, è la punta dell’iceberg del sistema di rapporti economici, di diseguaglianze sociali, di produzione di marginalità e di costruzione del consenso su cui si strutturano le nostre società. Nella sostanza il rapporto con il sistema di potere e di controllo è lo stesso. Una reazione uguale e contraria da parte della società civile, rispetto alla pervasività di questo sistema di dominio è, a questo punto, auspicabile, e forse prevedibile.