Quadrimestrale.

Editoriale

Editoriale n. 8

Prima di entrare nel dettaglio del numero, pare opportuno un sia pur rapido accenno a due questioni che appaiono particolarmente rilevanti, rispetto alle quali ci sentiamo di condividere con le nostre lettrici e i nostri lettori una posizione di redazione. Al momento in cui mandiamo in stampa la rivista, la tensione politica internazionale non accenna a decrescere e se apriamo i giornali o consultiamo le notizie sul web, non possiamo fare altro che essere presi dall’angoscia. Dilagano le notizie sui conflitti, ormai intrecciati in un sistema sempre più complesso di appoggi, alleanze e minacce. In questa difficile situazione, il nostro modesto apporto non può essere altro che un appello perché tutti gli scontri armati cessino al più presto.
La carenza e l’indebolimento di relazioni fondate strutturalmente sul mutuo appoggio, li vediamo e tocchiamo nel nostro mondo in vari ambiti, dal globale al locale.
Nell’ambito della politica interna, ad esempio, un tema che ci tocca sempre più da vicino è il graduale smantellamento della sanità pubblica, che sperimentiamo con sempre più lunghe liste di attese a causa della carenza di personale. I minimi investimenti nella sanità degli ultimi anni causa la fuga di moltissimi medici e infermieri al settore privato o all’estero, ma quello che più preoccupa è non vedere nessuna soluzione all’orizzonte.
Questo secondo spunto ci permette di iniziare la presentazione del numero dagli articoli dedicati al tema della medicina e della cura. In questo numero affrontiamo infatti il tema della medicina di genere e la sua recente inclusione nella medicina occidentale. Non si parla di medicina «delle donne», ma di un’apertura atta a valutare la cura dei disturbi secondo parametri più ampi, che tengano in conto che le differenze tra persone non sono solo biologiche ma anche ambientali, culturali, sociali, economiche. Il concetto della cura, ampliato al «prendersi cura di…» può essere centrale nella gestione politica delle relazioni e per modificare equilibri. La prospettiva individualista che è alla base del sistema capitalistico ha permeato la visione che abbiamo dell’altro e ci ha abituato alla delega della cura, considerando l’interdipendenza una questione di debolezza, associata all’ambito femminile (versus l’indipendenza e la forza, che identifica nell’immaginario tradizionale l’ambito maschile).
Per poter immaginare un mondo basato su diversi rapporti sentiamo la necessità di affrontare gli equilibri che si instaurano in famiglia, prima comunità nella quale impariamo a muoverci. A questo proposito, una citazione è per il film C’è ancora domani di Paola Cortellesi, che con linguaggio poetico ha portato nel mainstream una riflessione sul lungo processo (ancora in corso) di emancipazione delle donne nella società italiana, toccando temi fondamentali, come i modelli ereditati di relazione tra uomo e donna, ed esprimendo la necessità di istituire nuove relazioni famigliari basate sulla collaborazione e l’amore, invece che sulla sopraffazione. Il merito del film ci pare ovviamente non risieda nella questione del voto, quanto nel riconoscere che siamo ancora figli di quei modelli di relazione e che finché non riusciremo ad offrire nuovi modelli ai nostri figli e alle nostre figlie non possiamo sperare che scompaiano le disuguaglianze.
In questo numero affrontiamo sotto varie angolature la questione dell’essere membri di una comunità all’interno di comunità, dal micro al macro. La necessità di trasformarci in membri pienamente responsabili della nostra comunità è fondamentale per la salvaguardia della grande casa in cui viviamo, l’ambiente. Un approfondimento che definisce l’eco-anarchismo ci ricorda come le nostre intime famiglie primarie si inseriscano in comunità locali e che a loro volta si ineriscono in comunità regionali sia umane che più-che-umane (la Terra intera).
Sul rapporto con la natura e le piccole comunità, un altro film recente degno di nota è Un mondo a parte, di Antonio Albanese, che fa luce su due temi fondamentali: la sopravvivenza dei piccoli borghi periferici rispetto alle grandi città, e la scuola come cuore di una comunità. È proprio dalle piccole realtà che dobbiamo ripartire per poter aspirare a cambiare le cose. E a questo puntiamo con questa rivista, presentando, sostenendo e diffondendo esperienze che esistono nonostante tutto e dalle quali possiamo trarre spunto.
Sul ruolo che ciascuno di noi può avere nel cambiamento in senso libertario dei rapporti sociali, utili indicazioni vengono sia dall’articolo di Francesco Codello, che tratta il tema dell’anarchismo pragmatico o post-negativo, che da quello di Samuel Clarke, che descrive il funzionamento di una cittadina secondo principi libertari. Le conclusioni dell’articolo di Clarke, che apre questo numero, potrebbero essere utilizzate per un Manifesto della nostra rivista: «Se nel mondo ci sono pratiche anarchiche che esistono da più tempo del nostro inferno capitalistico, allora dobbiamo solo riaccendere quelle pratiche. Non dobbiamo necessariamente costruire una nuova utopia apparentemente aliena, dobbiamo solo incoraggiare i valori umani che precedono la nostra attuale distopia».
Il nostro immaginario è infatti così prigioniero di modelli e valori propri della società capitalista, che non riusciamo nemmeno a pensare che ci possano essere reali alternative. L’antropologia culturale, fortunatamente, ci ricorda come nella storia e nella geografia ci siano stati numerosissimi esempi di società organizzate in modi diversi e deve indurci a meditare sul fatto che quelli che molti sono portati a considerare dei dati naturali immodificabili, sono in realtà il riflesso di una visione culturale. E ci offre anche una speranza dimostrando che l’autorganizzazione che è scaturita storicamente in tante piccole comunità possa continuare ad essere la base delle interazioni umane.
Queste riflessioni ci portano al toccante resoconto che abbiamo ricevuto dalle carceri dell’Indonesia: il linguaggio fresco e sincero del compagno incarcerato ci permette di comprendere i diversi sensi che può avere la parola resistenza, e come in ogni situazione si possa cercare di cambiare le cose senza dare per scontato di doversi adeguare al sistema (e alla sua corruzione).
Il tema del mutuo appoggio costituisce il tratto distintivo di molti contributi. Per esempio, l’articolo di Alberto Franchini ci sembra importante perché ci ricorda che anche fare la spesa è un atto politico, mentre l’esperienza dei gruppi di mutuo aiuto, raccontata da Bruno Miorali, ci riporta all’importante ruolo di responsabilità di ognuno di noi all’interno di ogni piccola comunità.
In termini economici, aspetti centrali legati alla solidarietà o alla sua assenza sono trattati rispettivamente nella conversazione tra Piketty e David Graeber e nell’approfondimento dedicato alla dottrina «anarco-capitalista» che ha portato Milei al governo dell’Argentina.
Nella rubrica Radici presentiamo i profili di un grande classico dell’anarchismo, Errico Malatesta (1853-1932), e di una scrittrice libertaria scomparsa recentemente, Ursula K. Le Guin (1929- 2018). Nella sezione musicale presentiamo infine un’intervista a Andrea Satta, dei Tête de Bois, che ripercorre la sua carriera come un viaggio nei paesaggi quotidiani e famigliari, senza dimenticare «l’amore e la rivolta».

Editoriale n. 7

Un nuovo anno inizia, drammaticamente, all’insegna delle guerre e della morte, della distruzione e dell’odio.Guerra, nel martoriato Medio Oriente, tra Israele e Hamas, con pesantissimo coinvolgimento delle popolazioni civili inermi e di diversi altri paesi, confinanti e non; guerra – che continua, trascinandosi ormai due anni – tra la Federazione russa e l’Ucraina; conflitti, colpi di Stato, guerre civili in varie parti del globo.Sostenere che la guerra non è il mezzo più giusto e appropriato per la risoluzione della controversie internazionali (o nazionali), riprendendo la nota formula dell’articolo 11 della Costituzione della repubblica italiana, significa, al contempo, ripetere una cosa vera e facilmente constatabile, ma anche fare una affermazione purtroppo retorica. Utopistica, nel senso volgarmente comune del termine, in quanto evocatrice di una impossibilità politica. Giacché proprio la Costituzione italiana (1948), nel suddetto articolo, chiamava a svolgere un ruolo di pacifico arbitrato istituzionale le «organizzazioni internazionali», sottintendendo, in particolare, le neonate Nazioni Unite (1945), che avrebbero dovuto, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, garantire finalmente all’umanità un futuro di pace e benessere, limitando direttamente, sul piano del diritto internazionale e, più indirettamente, su quello del diritto nazionale, la sovranità e lo strapotere degli Stati nazionali.Così invece, in gran parte non è stato. Né poteva essere. Quell’ordine internazionale, che le istituzioni sovranazionali si impegnavano formalmente ad assicurare, nasceva su una base politica troppo diseguale, che si riflette, palesemente, nella struttura e nel funzionamento poco democratico dell’ONU, organizzazione formata, peraltro, da molti Stati retti in modo autoritario o dittatoriale. E si sovrapponeva a una realtà economica e sociale a sua volta contrassegnata da forti disparità e diseguaglianze. Sicché quel fragile equilibrio, su cui era sorto il nuovo mondo delle potenze vincitrici del Secondo conflitto mondiale, non era destinato, per sua natura, a durare a lungo. Immediatamente, infatti, si spezzò, già nel 1950, con la guerra di Corea, che rivelò al mondo quanto sostanzialmente «calda» fosse, in realtà, quella guerra definita eufemisticamente, a partire da Lippmann, «fredda», che vedeva contrapporsi il mondo delle democrazie capitaliste e dei loro alleati, spesso illiberali e antidemocratici, e quello totalitario del comunismo realizzato: una guerra combattuta spesso per procura, ma non meno crudele e devastante delle precedenti.

Editoriale n. 6

Nell’arco di tempo che passa da un numero all’altro, circa quattro mesi, accadono così tante cose che è difficile darne conto. Soprattutto, si rischia di essere sorpassati dagli eventi. Solitamente sono eventi – o dinamiche, o processi – negativi dal punto di vista di chi, come noi, si prova a muovere per allargare gli spazi di libertà e dignità. Sembra quasi che ogni cambiamento, qualsiasi trasformazione sia peggiorativa della situazione precedente. Dal lavoro alla sanità, dall’ambiente alla guerra, dalla violenza di genere alla repressione della polizia (abbiamo cominciato ad abbozzare questo editoriale subito dopo l’omicidio di un diciassettenne di Nanterre per mano delle guardie), dal carcere alle varie forme di limitazione della libertà, tra cui quella di movimento di chi cerca prospettive di vita migliori lasciando i sud del mondo. Potremmo non finire più.

Editoriale n. 5

In un articolo pubblicato nella rivista «Interrogations» nel lontano 1975, Giampietro (Nico) Berti coniò questa felice espressione per descrivere, in estrema sintesi, la natura e la vocazione più profonda dell’anarchismo: «nella Storia, ma contro la Storia». L’anarchismo, movimento politico volto alla trasformazione rivoluzionaria della società in vista della realizzazione di una società contrassegnata dal socialismo libertario, fondata sull’autogestione dei produttori e la cooperazione volontaria ed egualitaria degli individui e dei gruppi sociali, si è posto fin dal suo costituirsi nella storia a fianco delle classi oppresse e sfruttate, dei movimenti di emancipazione, di rivolta e sovversione dell’ordine costituito, per contribuire al cambiamento politico e sociale auspicato; al contempo, si è sempre manifestato – e sempre si manifesterà – contro la storia, in quanto sua caratteristica precipua è quella di negare sul piano teorico la legittimità morale e politica del principio del dominio e di ogni forma di rapporto gerarchico tra gli esseri umani; di contestare, dunque, ogni manifestazione storica e politica di tale principio: passata, presente e futura.

Editoriale n. 4

Dalle acque del Mediterraneo al cuore del Rio Grande do Sul, nel senso della vita e della morte, nel complesso rapporto tra uomo e natura, nella società e nella cultura, continuiamo, con i molti limiti di cui siamo consapevoli, ma con una passione e perseveranza che ci auguriamo possa in qualche modo trascenderli, a cercare semi concreti di libertà, solidarietà e speranza. Storie piccole e grandi di donne e uomini che sfidano barriere e pregiudizi, violenze e miserie. Che indicano, spesso inconsapevolmente, una direzione verso un mondo più libero e giusto. Che meritano di essere raccontate, condivise e interrogate.Più di un lettore ci ha comunicato il suo sostegno al nostro modo di affrontare criticamente i temi proposti. Come Badabing, che ci scrive di aver trovato un effetto un po’ terapeutico in questo nostro illustrare immaginari e pratiche di libertà, che permettano di riacquistare fiducia e speranza in un momento storico di «depressione» delle lotte. Abbiamo bisogno del vostro appoggio, ma anche delle vostre critiche e proposte. Vi invitiamo a essere sempre più partecipi alla vita della rivista.

Editoriale n. 3

Quindi, se apprezzate il nostro lavoro iniziale, provate a fare in modo di allargare il giro delle lettrici e dei lettori, indicando la rivista a chi pensate possa interessare.

Ritorniamo all’inizio: semi sotto la neve, dicevamo, ovvero pratiche ed esperienze libertarie nei più diversi campi basate su un metodo antiautoritario, collettivo, tendenzialmente egualitario. Semi sotto la neve, o gocce nel deserto, o tracce di umidità sotto qualche centimetro di un terreno, in senso reale e figurato, desertificato, potremmo dire. In antichità in diversi luoghi aridi, come in Salento, vi era l’uso, oggi ripreso da alcune associazioni e singoli, di costruire strutture in pietra «di condensazione», cioè in grado di riutilizzare l’aria umida ai fini della coltivazione. Metafore diverse, ma la sostanza non cambia.  

Editoriale n. 2

Nel momento in cui chiudiamo il secondo numero della rivista, ancora lontana appare la fine della guerra in Ucraina, iniziata il 24 febbraio con l’invasione da parte dell’esercito russo di un territorio sovrano. Molte, forse troppe parole sono già state spese su questo conflitto che, come tutte le guerre, segna naturalmente una sconfitta del genere umano e della civiltà, qualunque significato si voglia dare a queste espressioni.

Consci della difficoltà di sviluppare riflessioni penetranti, desideriamo proporre un’analisi di ampio respiro e alcuni spunti di approfondimento sul tema: troverete una interessante disamina dell’ideologia nazional-populista putiniana svolta da Sofia Tipaldou e un percorso di letture per adolescenti suggerito da Libri e formiche.

Editoriale n. 1

«Semi sotto la neve». Rivista libertaria». Quadrimestrale. Il titolo che abbiamo scelto per questa nuova rivista sintetizza il suo programma editoriale. Infatti, con l’espressione «Semi sotto la neve» (coniata da Ignazio Silone e ripresa concettualmente da Colin Ward) intendiamo proporre ai nostri lettori una rinnovata interpretazione del pensiero anarchico, delle esperienze libertarie e delle pratiche mutualistiche. Si tratta, a nostro parere, di valorizzare una dimensione costruttiva, positiva e sperimentale di una tradizione sociale, politica e culturale che riconosciamo come antiautoritaria e solidaristica.

Esperienze

Anarchismo senza nome. Lezioni dalla città di Cherán

In una piccola città messicana, i residenti indigeni hanno creato una comunità nuova, democratica e in gran parte pacifica. La domanda è: cosa possiamo imparare dai loro risultati?

Murray Bookchin, nella sua opera fondamentale nel campo dell’ecologia sociale, L’ecologia della libertà, ha criticato la tendenza della storia a concentrarsi sulla «conquista del potere» e sugli imperi con i loro «templi, obitori e palazzi» – luoghi che «evocano la nostra radicata soggezione al potere». Le conseguenze di questo atteggiamento, per Bookchin, sono molto chiare:

Un muro è solo un muro, può essere distrutto

Serikat Tahanan è un’associazione antiautoritaria di detenuti organizzata all’interno e all’esterno di undici carceri in Indonesia. Lavorano per raggiungere gli attivisti antiautoritari condannati e per difendere e informare il pubblico sulle condizioni di detenzione in Indonesia. «Organizzandoci in Serikat Tahanan, ci ricordiamo costantemente perché abbiamo iniziato la nostra lotta. Il nostro programma a lungo termine è l’abolizione della prigione». I compagni hanno deciso di raccogliere i loro scritti in una pubblicazione e hanno lanciato una campagna di finanziamento per coprire le spese. In segno di solidarietà e supporto, condividiamo un pezzo della prossima pubblicazione.

Food Hub: il primo supermercato partecipativo e cooperativo in Germania

Non mi ha mai entusiasmato molto fare la spesa al supermercato. Ambienti freddi, impersonali; luci al neon; atmosfera tesa; cibi impacchettati sotto molteplici strati di plastica (!); messaggi visivi invadenti che annunciano sconti e ribassi apparentemente imperdibili; musica dalla radio con i chiassosi successi del momento, interrotti da frequenti messaggi pubblicitari e da annunci sonori per il personale. Una giungla artificiale fatta di rumori, suoni, luci, materiali, colori che frastornano, talvolta irritano e ci allontanano da quello che dovrebbe essere lo scopo principale della nostra visita: una scelta consapevole del cibo del quale ci nutriamo.
La mia esperienza quotidiana di cosa sia fare la spesa è cambiata radicalmente da quando ho iniziato a frequentare il Food Hub a Monaco di Baviera, a poche centinaia di metri da dove vivo. Vi devo però avvertire: Food Hub non è un supermercato comune. Lo si capisce già dalle vetrofanie colorate che decorano le vetrine dell’ingresso, disegnate ad hoc dallo studio di grafica Waldmeister. All’interno sono del tutto assenti quei chiassosi messaggi pubblicitari, sia sonori che visivi. L’arredamento è, infatti, parte integrante del corporate design, anche questo curato dai grafici.
Tutto è visivamente coordinato: dalle divise color sabbia di chi vi lavora, ai mobili bianchi e agli elementi di legno, fino alle multiformi lampade in vimini, appese al soffitto da colorati cavi tessili. La filosofia di Alexandra Dietl e Robert Scheurer, i grafici dietro al nome Waldmeister, si sposa alla perfezione con i valori di Food Hub, ovvero sostenibile, nel senso di biologico, ecologico, pulito, ma anche di longevo, durevole e consapevole.
L’ambiente è rilassato e le persone all’opera, spesso, sono occupate a parlare, tutto il contrario degli altri supermercati, dove le cassiere lavorano a ritmi forsennati senza mai alzare lo sguardo. Al Food Hub entri per comprare qualcosa e non esci senza aver scambiato una parola con qualcuno. Parole che possono sembrare talvolta banali o non necessarie ma che sono talvolta dei ponti per costruire relazioni più durature.
Questi sono i dettagli più evidenti di un nuovo modo di concepire un supermercato. Si tratta, infatti, di un supermercato cooperativo e socialmente sostenibile, dove solo i soci possono fare la spesa. Essere socio al Food Hub non implica soltanto il pagamento di una quota (180 euro che vengono restituiti qualora si decidesse di lasciare la cooperativa), ma presuppone un contributo mensile di tre ore, nelle quali ci si impegna a lavorare manualmente nelsupermercato. Le mansioni di cui ci si deve occupare sono simili a quelle di un normale supermercato: la pulizia degli spazi, il lavoro come cassiere o cassiera, l’accettazione delle merci, il lavoro in magazzino, la distribuzione dei prodotti negli scaffali, affettare il formaggio, impacchettare le noci…
L’idea centrale è che il lavoro manuale consolida non solo la fiducia reciproca tra i soci, ma anche quella nel progetto, attraverso la cooperazione e il lavoro di squadra. Chiamarlo supermercato è in qualche modo riduttivo. Il potenziale sociale è alto e le attività che contribuiscono al rafforzamento di questa comunità sono molte e non prendono luogo solo all’interno del negozio ma anche in altri spazi della città. Ci sono ovviamente attività legate al cibo e alla cucina, assaggi di birre e vini, formaggio francese (uno dei cofondatori ha origini francesi), ma vengono fornite anche sessioni di caffè letterari, corsi di canto e ballo… In più vengono offerte giornate di «porte aperte», dove i nuovi interessati possono vedere il supermercato e parlare con i soci.
Questo progetto ha preso avvio nella Utopia Halle, il 16 gennaio 2021 e il suo primo negozio ha aperto i battenti nel quartiere di Giesing, il primo dicembre 2022. Oltre ai due concetti principali di cui vi ho già parlato, ovvero che il supermercato appartiene ai soci e che questi devono partecipare attivamente e manualmente al suo funzionamento, ce n’è un altro: la trasparenza dei prezzi.
Il Food Hub si rifornisce, per quanto possibile, direttamente dagli agricoltori locali, promuovendo quindi prodotti di stagione e a km zero. Quando questo non è possibile e dunque, per garantire un vasto assortimento di prodotti, Food Hub attinge a grossisti o produttori di cibi biologici. L’idea è di non costringere i soci a fare la spesa in altri negozi, ma, come un vero e proprio supermercato, di fornire un’ampia gamma di prodotti, dalla pasta ai prodotti per la pulizia.
Ciò che invece accomuna tutte le merci è la politica dei prezzi. Al costo del prodotto viene applicato di norma un 30% in più, con il quale coprire i costi del Food Hub, come ad esempio pagare i dipendenti. In questo modo prodotti di alta qualità vengono venduti ad un prezzo nettamente più basso rispetto alle normali catene di supermercati biologici.
L’assortimento dei prodotti è invece del tutto inedito, per lo meno per un supermercato. I soci possono suggerire l’acquisto di prodotti o un produttore scrivendo all’interno del «libro dei desideri» che sitrova all’ingresso del supermercato. I suggerimenti vengono poi esaminati e a ciascun suggerimento viene data risposta. Un sistema simile a quello in uso nelle biblioteche dove gli utenti possono suggerire l’acquisto di libri.
I criteri di selezione dei prodotti sono definiti nella «politica di acquisto» che comprende prodotti preferibilmente biologici, regionali, stagionali e di alta qualità, ma anche puliti, giusti e a buon prezzo. Anche la logistica gioca un ruolo determinante per la selezione. I prodotti, suggeriti e approvati, rimarranno negli scaffali fintantoché saranno richiesti dai clienti. I processi che regolano il Food Hub sono importanti per il funzionamento di questo supermercato come organismo sociale e avvengono con principi decisionali «dal basso».
Parlando di prodotti, dobbiamo ricordare che l’attenzione alla sostenibilità passa anche per l’offerta di una gamma di prodotti non impacchettati che possono essere comperati nella quantità desiderata, facendo ricorso ai propri vasi o contenitori che pertanto possono essere riutilizzati e non devono essere gettati via dopo un solo uso. Per ora i prodotti offerti in questa modalità sono la frutta, la verdura, ma anche alcuni prodotti secchi, come i cereali per la colazione. Anche in questo caso l’offerta viene articolata in base alla domanda, forse ancora troppo bassa per allargare la gamma di prodotti unverpackt.
I cofondatori di questa iniziativa, Quentin Orain, Kristin Mansmann e Karl Schweisfurth, si sono ispirati al Park Slope Food Coop di New York e al La Louve a Parigi. Il primo è stato fondato nel 1973 e conta oggi 17.000 soci, il secondo ha aperto le porte nel 2017 e ha raggiunto la cifra di 7.700 soci. Numerosi altri esempi basati su questi modelli si trovano in Francia e in Belgio. In Germania Food Hub è in collegamento con altri supermercati simili, come Supercoop a Berlino, Köllektiv a Colonia e Supercoop ad Amburgo.
All’apertura di Food Hub c’erano già 700 soci, oggi i soci sono più di 2000. Tra questi il 70% abita nell’arco di un chilometro dal negozio e comprende persone di due fasce d’età, tra i 30 e i 35 anni e tra i 60 e 65 anni.
Il finanziamento di questa iniziativa monacense si basa su tre pilastri. Il primo, di cui abbiamo già parlato, riguarda la quota associativa che può essere ridotta in caso di famiglie conun reddito basso. Il secondo riguarda dei prestiti volontari da parte dei soci, che servono a Food Hub come garanzia per i prestiti da richiedere alle banche, nel caso di ampliamenti, arredamenti e quant’altro ecceda le normali spese per il funzionamento del supermercato. In questo caso ci sono due possibilità. La prima riguarda il prestito con buoni da 300 a 1500 euro, che vengono restituiti con gli interessi fino al 2% nell’arco di dieci anni, sottoforma di buoni per la spesa. La seconda opzione è quella dei prestiti subordinati a partire da 500 euro che vengono restituiti con interessi analoghi dopo otto anni. Il terzo pilastro riguarda GLS Bank, una banca etica, che ha concesso un prestito iniziale di 500.000 euro da restituire entro otto anni con un interesse al 3%. Senza questo determinante e cospicuo aiuto finanziario e morale, questa iniziativa non si sarebbe potuta realizzare.
Innovazione e tradizione sono i concetti alla base di questo progetto dove attorno all’importanza del cibo si è costruito un network nazionale che raccoglie assieme diverse comunità locali. I soci di Food Hub, come quelli degli altri supermercati di cui ho accennato, condividono gli stessi principi.
La scelta del cibo e la nostra consapevolezza rispetto a quello di cui ci nutriamo non ha solo una connotazione salutista, attenta a calorie e carboidrati, ma è anche una scelta politica. Supermercati come questo selezionano accuratamente non solo i prodotti ma anche le aziende che li producono. Lavorano in simbiosi con il territorio nel quale si trovano. Accorciano dove possibile i percorsi delle merci.
Promuovere alcune iniziative piuttosto che altre sulla base del modo in cui esse sfruttano le risorse naturali e il nostro territorio è essenziale se vogliamo salvare il nostro pianeta. Food Hub contribuisce a questa causa. Fare la spesa è un atto politico. Cercare alternative alle grandi catene di supermercati è necessario oggi più che mai. Se non ci sono, auto-organizzatevi e fondatele!

I gruppi di auto/mutuo aiuto: relazione e comunità

«Secondo la collaborazione reciproca (con un partner o con i gruppi di mutuo aiuto), siamo tutti a un tempo forti e deboli, capaci e incapaci, colti e ignoranti, curati e curatori, e perciò possiamo usare tutte le nostre energie positive per aiutarci reciprocamente».
Jerome Liss

L’uomo è un animale sociale: tra le sue caratteristiche precipue vi è quella di costruire molteplici relazioni sociali, a vari livelli. Questo articolo analizza un tipo speciale di interazione di gruppo, parzialmente diversa da quella che mettono in opera alcuni movimenti politici: non si occupa, infatti, dei gruppi di affinità a vocazione politica, ma di quelli di auto/mutuo aiuto. Obiettivo del seguente contributo è di sviscerare gli elementi di peculiarità di tali gruppi, mettendo in luce l’importante ruolo che anch’essi possono assumere nella costruzione di una comunità genuinamente libertaria.

Solidarietà al transito in Val Susa. Migrazioni e rotte alpine

Introduzione

In relazione alla cosiddetta «lunga estate delle migrazioni» del 2015 – cui ha corrisposto una generale crisi dell’accoglienza in Europa – in diverse regioni europee sono state attivate diverse forme di solidarietà e sostegno ai rifugiati e ai migranti in transito. Gli attori della società civile hanno sperimentato nuove pratiche e discorsi volti a contestare o contrastare le politiche migratorie europee e nazionali, nonché a compensare le carenze istituzionali in diversi percorsi di accoglienza.Nel contesto attuale della migrazione non autorizzata intra-europea, l’area del confine alpino tra Italia e Francia corrispondente alla regione della Val Susa è emersa come uno dei punti focali degli attraversamenti, costituendo un vero e proprio crocevia della mobilità migrante e un punto di condensazione di diverse rotte – congiungendo la cosiddetta rotta balcanica e la rotta del Mediterraneo centrale. In egual misura, in questo stesso passaggio spiccano in modo significativo diverse forme di solidarietà nei confronti dei migranti undocumented in transito, in grado di trasformare la natura stessa della mobilità. Le reti di solidarietà sono emerse come attori chiave nel dibattito contemporaneo sulle migrazioni non solo per il loro ruolo di sostegno alle persone in movimento ma anche per la loro capacità di contestare concretamente il regime di confine contemporaneo. Questi gruppi rappresentano una costellazione di attori sociali, pratiche, discorsi e relazioni cangianti, che insieme alludono e richiamano nuovi immaginari post-nazionali basati sulla libertà di movimento. Un processo di cui le reti solidali attive in Val di Susa costituiscono un esempio significativo.

"Siamo state tutte". 33 anni del Centro Veneto Progetti Donna

«Il Centro Veneto Progetti Donna - Auser è un’associazione di donne ed esercita in via esclusiva o principale, senza scopo di lucro, una o più attività di interesse generale per il perseguimento di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale con l’obiettivo di rimuovere ogni forma di violenza psicologica, fisica, sessuale ed economica alle donne e ai minori, italiani e stranieri, all’interno e fuori la famiglia, approfondendo la ricerca, la riflessione, il dibattito, promuovendo e svolgendo la formazione, implementando e gestendo azioni/progetti e servizi, ispirandosi alla Carta dei Valori, allo Statuto e al Codice Etico della rete nazionale Auser». Queste sono le parole con cui si apre lo Statuto del Centro Veneto Progetti Donna (CVPD), e che racchiudono i nostri principi e la nostra mission. Così spiega Anna Arvati, una delle prime operatrici, il motivo della presenza del termine «progetti», all’interno del nome del CVPD: «Per fornire una risposta a un fenomeno è necessario prima di tutto studiarlo. Secondo me era importante che il Centro avesse una vocazione alla ricerca, permettendoci poi di elaborare progetti adeguati. Il Centro nella sua definizione di Statuto prevede la formazione e l’informazione attraverso resoconti periodici. Quando l’Associazione si è costituita avevamo espresso la volontà che fosse capace di spaziare su due livelli: operativo e culturale». Le due anime che tuttora convivono.Il CVPD «un’associazione di donne», questo sta a significare che è un luogo fatto da donne e per le donne, dove la «sorellanza» è una pratica quotidiana di riconoscimento nell’altra. Il Centro nasce a Padova l’8 marzo del 1990 da un gruppo di donne sindacaliste che volevano arginare il problema delle molestie sul luogo di lavoro ma fin da subito le chiamate che ricevono raccontano per la maggioranza, di un incubo quotidiano, non conosciuto che parla di maltrattamenti e percosse dentro le mura domestiche. Da quel momento fino ad oggi il Centro ha lavorato per accogliere le richieste di migliaia di donne che volevano uscire dalla violenza nelle relazioni intime.

Maschile plurale: l'immaginario maschile liberato dalla violenza

Questo articolo nasce a seguito di una lunga conversazione tra chi scrive e Stefano Ciccone, Marco Deriu e Alessio Miceli, tre componenti dell’APS Maschile Plurale, che ringraziamo per la disponibilità e la ricchezza di racconti e riflessioni che hanno condiviso. Aggiungiamo un’osservazione che ci è stato chiesto di esplicitare. Maschile Plurale non ha un portavoce e al proprio interno convincimenti e modi di intendere senso e attività dell’associazione sono sempre espressi dai singoli componenti in prima persona. Ne discende che quanto qui esposto - storia, visione politica e prospettive future di Maschile Plurale - è espressione della particolare visione dei tre componenti con i quali abbiamo avuto il piacere di conversare e non immagine univoca e omogenea di una esperienza che si nutre di ben più ampia “singolarità plurale” di punti di vista e rappresentazioni.

Anarchia e solidarietà nel Mediterraneo

Anarchia e solidarietà, nel Mediterraneo centrale, sono concetti che si intrecciano, particolarmente in situazioni di crisi umanitaria come quella che si sta verificando con i flussi migratori marittimi. Prima di parlare della mia visione di donna soccorritrice, vorrei chiarire questi termini nel loro contesto del Mediterraneo centrale. Quanto mi appresto a dire si potrebbe probabilmente estendere anche ad altre rotte o altri luoghi, ma preferisco parlare sulla base della mia esperienza diretta e su quanto ho personalmente visto e vissuto.Per solidarietà intendo l’atto concreto di sostegno e aiuto agli altri nel momento del bisogno. Nel Mediterraneo centrale, le ragioni per cui migliaia di persone rischiano la vita cercando di attraversare il mare in condizioni drammatiche sono tanto diverse, quanto legittime: fuggire dalla violenza, dalla povertà, da qualsiasi tipo di persecuzione che si manifesti nei loro paesi d’origine. Cercare una vita migliore o il semplice fatto di poter esercitare una libertà di movimento sono diritti che vengono totalmente negati da parte di coloro che vivono in altre realtà e difendono i propri privilegi, nella paura di perdere il proprio potere. Ho una visione molto impegnata, e ritengo che la lotta per la libertà e la giustizia sociale siano intrecciate in modo indissolubile con la necessità di offrire sostegno a coloro che, per svariati motivi, sono stati costretti a vivere una situazione di vulnerabilità e disperazione.Il Mediterraneo centrale non è solo un territorio di separazione geografica, un mare tra le terre, ma rappresenta uno spazio vivo, dove le vite umane si incontrano e si perdono; dove gli stati e i confini artificiali mostrano tutta la loro brutale e crudele realtà, perpetuando la disuguaglianza e l’ingiustizia sociale, di classe, di genere e di ogni altro tipo di identità. La lotta deve mirare a sfidare questi sistemi nel concreto, a dimostrare che la solidarietà è molto più di una parola: è reale e può essere sentita, toccata, vissuta e creata.Inoltre, come dice il testo di una canzone di un gruppo spagnolo chiamato Habeas Corpus: «Bisogna chiamare le cose con il loro nome», recuperare le parole, riconoscere la forza che posseggono e che si cerca sempre di pervertire per distorcerle, cambiarne il significato, in modo che i muri che il fascismo vuole continuare a costruire appaiano in tutta la loro crudele drammaticità e vengano abbattuti.Questa macchina di distruzione sociale ha una grande presenza nel Mediterraneo centrale. Per me, la cosa più grave che si sta verificando è il processo in atto di privazione dell’identità individuale di quelle persone che, a causa di circostanze avverse, si trovano, loro malgrado, a far parte di quel grande collettivo eterogeneo che va sotto il nome di migranti. Sono persone in movimento, costrette a fuggire, a migrare, spinte ad abbandonare le loro vite verso luoghi ignoti.La vera forza della parola, in questo caso, è data dal fatto che ogni persona, la cui vita è in pericolo in mare, diventa un persona naufraga e chi è naufrago ha diritto di essere aiutato, salvato. È qui che entra in gioco tutto l’ampio, preciso e chiaro apparato giuridico degli accordi e delle convenzioni internazionali sul salvataggio delle vite in mare sottoscritti da molti Paesi: la UNCLOS, la Convenzione SOLAS, la Convenzione SAR, la IAMSAR, l’IMO, che definiscono le linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare. Chi comanda una imbarcazione, quando avvista una persona dispersa o in pericolo in mare, è tenuto a prestare assistenza il più rapidamente possibile, senza mettere in pericolo se stesso o l’equipaggio (mi sembra importante segnalare qui, con questo piccolo inciso, che, mentre in inglese è neutro, sia in spagnolo che in italiano il termine «comandante» viene reso con la forma maschile, perché è risaputo che i comandanti donna non esistono).In questa situazione è da evidenziare come Malta costituisca un esempio particolarmente negativo nella pratica dei soccorsi, nonostante gli obblighi imposti dalla legislazione internazionale in materia: non ha sottoscritto gli emendamenti del 2004, non fornisce un porto sicuro ai migranti e inoltre non rispetta l’obbligo di soccorso in mare nell’area di competenza, contravvenendo alla legge del mare e a ogni dettato etico. Questo non vuole essere un implicito invito a dare credibilità e giustificazione alle leggi vigenti, né ritenere che non si possano cambiare, combattere o abrogare. Il fatto che una legge sia una legge non significa che sia necessariamente giusta. La mia intenzione è quella di denunciare e dimostrare come coloro che fanno le leggi, impongono le regole e costringono con la forza al loro rispetto sono i primi a non rispettarle, a voltare le spalle e a cercare mille scappatoie quando quanto viene previsto non è in linea con i loro interessi o con le loro strategie politiche. Qui non c’è spazio per l’interpretazione. Ogni singolo criterio è ben stabilito e chiaro, probabilmente per ovviare alle ingiustizie commesse in passato. Quello che trovo curioso è che ci sia stato bisogno di un gruppo di persone che si sono riunite per stabilire che ogni persona merita di essere salvata e portata in una terra sicura dove sarà curata. Il fatto che sia necessario legiferare che le persone devono essere salvate dall’annegamento dimostra quanta poca umanità, quanto poco rispetto per la vita e quanta poca coscienza collettiva ci sia.Ma cosa succede quando spogliamo la parola «naufrago» della sua forza primordiale ed enfatizziamo invece la parola «migrante» con tutte le sue lettere? Le mie viscere si ribellano quando penso all’intenzione malvagia che sta dietro a tutta questa pantomima: negare la realtà di migliaia di persone, chiudere gli occhi davanti alla tragedia e rubare la loro identità, negare la loro esistenza, calpestare i loro diritti operando sulla base del privilegio e infine spiegare paternalisticamente la loro morte. Giustificare il loro omicidio. Come diretta conseguenza di tutto questo, si ha la mancata attivazione del sistema di ricerca e soccorso. Gli stati competenti, nella loro area di responsabilità, sono obbligati dal diritto internazionale - ciò dovrebbe costituire anche un dovere morale - ad avviare le operazioni di ricerca e salvataggio il più rapidamente possibile. Quanto sta accadendo negli ultimi mesi dimostra con assoluta evidenza la volontà, da parte delle autorità preposte, di sottrarsi agli obblighi di soccorso. Ad esempio, vediamo come siano centinaia i casi in cui Malta ha omesso di prestare assistenza ordinando addirittura alle navi mercantili di non prestare soccorso e di continuare la loro rotta, il che oltre a essere inumano appare anche incredibile, viste le implicazioni che derivano se consideriamo che secondo le norme internazionali è il capitano il responsabile ultimo delle conseguenze che possano verificarsi in caso di omissione di assistenza. Il naufragio di Cutro – in cui, per motivi ancora poco chiari, anche se appaiono via via sempre più evidenti, non è stata attivata l’operazione di salvataggio, cosa che ha provocato l’agonia e la morte di decine di persone annegate, i cui corpi sospinti dalle onde, hanno raggiunto le coste italiane – ha trovato larga eco nei media, attirando una grande attenzione da parte dell’opinione pubblica. Sembra quasi che quando invece i corpi non raggiungono la terraferma e rimangono in fondo al mare non meritino tanta attenzione pubblica e mediatica.Altro esempio, il naufragio di Pyros, dove non solo non è stata data comunicazione della gravità della situazione, che avrebbe potuto e dovuto attivare una grande operazione di soccorso, ma a seguito delle prove e delle analisi forensi si è dimostrato invece come la guardia costiera greca abbia effettuato manovre estremamente pericolose, agendo in modo irresponsabile e cercando poi giustificazioni attraverso dichiarazioni assolutamente contraddittorie.Se non c’è soccorso, non ci sono naufraghi, e se non ci sono naufraghi, non c’è bisogno di prestare loro soccorso. E quindi non c’è la necessità di un porto sicuro in cui farli sbarcare. Se la parola «naufraghi» viene eliminata dal contesto marittimo di cui stiamo parlando ed essi vengono descritti solo ed esclusivamente come «migranti», con l’aggiunta di una connotazione peggiorativa, magari «clandestini», vengono privati dello stesso valore umano delle altre persone, di uno status che invece non dovrebbe nemmeno essere messo in discussione. Non si deve permettere di stravolgere il vero significato delle parole. Troppi i simboli in gioco, le dichiarazioni, bandiere ostentate (per chi le vuole…), le parole d’ordine utilizzate per manipolare, per conquistare consenso, per nascondere la tragica realtà. Il dramma delle morti in mare viene utilizzato ciclicamente per la ricerca di consenso politico: non possiamo permettere che tutto questo accada. È in questo contesto che il salvataggio dei migranti naufraghi non solo è un atto umanitario, ma è anche un atto politico, che sfida le politiche migratorie restrittive e le campagne di odio. È un atto con il quale si mettono in pratica i valori dell’uguaglianza e dell’aiuto reciproco.Non si tratta solo di salvare persone che rivendicano l’elementare diritto di continuare a vivere, di non essere cancellate, quasi non fossero mai esistite. Si tratta di proteggerle con la presenza, denunciando qualsiasi violazione dei diritti umani in alto mare; di essere testimoni diretti dei rimpatri immediati effettuati dalle milizie in uniforme, sovvenzionate dall’Unione Europea; di essere testimoni della violenza fisica esercitata su persone che già fuggono da un passato di cui la maggior parte di loro non potrà mai liberarsi, perché sempre presente come un incubo nella mente.Ancora, di essere testimoni della connivenza degli stati europei con quelle stesse cosiddette guardie costiere libiche, dell’esistenza di una polizia di frontiera che spende milioni di euro per sorvegliare dal cielo – nel Mediterraneo centrale – frontiere ancora più diffuse, dove la possibilità di vita delle persone dipende dalla rapidità con cui si segnalano le loro coordinate e dalla rapidità con cui arrivano le imbarcazioni della guardia di finanza italiana per riportarle in quell’inferno in terra che è la Libia.

Urbanistica femminista. Il collettivo Equal Saree

Gli spazi pubblici sono fondamentali come punti d’incontro, di gioco e di rappresentazione sociale, culturale e politica. Gli spazi urbani non sono neutri, sono la rappresentazione fisica dei valori della società che li pianifica, li costruisce, li gestisce e li abita. Gli spazi ci parlano, trasmettono messaggi che integriamo in maniera incosciente e che possono riprodurre disuguaglianze sociali.L’urbanistica è la disciplina che si occupa di definire questi spazi, e nella grande maggioranza dei casi gli architetti e urbanisti che prendono decisioni sull’organizzazione delle nostre città sono uomini, bianchi, normodotati e generalmente si muovono in macchina. L’urbanismo istituzionale tende a semplificare e a progettare solo per un tipo di persona e gli spazi riflettono quindi le esigenze solo di una parte della popolazione. Per esempio è dai tempi dell’agorà greca che le donne vengono escluse dagli spazi dove si prendono le decisioni: l’urbanismo è patriarcale e gerarchico e gli uffici urbanistici continuano a essere «mascolinizzati». Inoltre questi ultimi tendono a essere chiusi alle contaminazioni e generalmente non si confrontano con esperti di altre discipline come l’antropologia o le scienze sociali e ambientali, fondamentali al momento di organizzare gli spazi comuni della popolazione. L’urbanismo di oggi si muove spesso al servizio degli interessi del capitale e anche se qualche volta ha la reale volontà di migliorare le condizioni di vita della cittadinanza non tiene quasi mai in conto ciò che essa vuole o semplicemente di cosa ha bisogno. Risposte alternative da parte dell’ambito accademico o teorico a questo modo di intendere lo sviluppo della città hanno almeno mezzo secolo di vita e negli ultimi anni si sono visti esempi concreti, ad esempio in Spagna. Si parla di urbanismo femminista e questo non significa rivendicare solo una visione di genere, ma una che tenga conto della diversità di persone che abitano le città: diversità di genere, ma anche di origine, di classe, di età e di mobilità.A Barcellona sono attivi diversi collettivi che lavorano in quest’ottica e la fervente attività dal basso ha trovato un riscontro nelle istituzioni, particolarmente sensibili al tema: negli ultimi anni questa visione sta quindi avendo un’influenza concreta sullo sviluppo degli spazi della città.

È possibile un’organizzazione economica anarchica?

Presentiamo qui la traduzione di un articolo apparso sulla rivista spagnola «Disjuntiva. Crítica de les Ciències Socials», vol. 0, n. 1, luglio 2019. I tre autori, Joaquim Cuevas Casaña, Lina Gálvez Muñoz e Lluís Torró Gil sono ricercatori rispettivamente delle Università di Valencia, Siviglia e Alicante. Il loro lavoro, attraverso un’analisi storica, sostiene due tesi, una generale e una particolare.

A) La tesi generale è che nella Spagna rivoluzionaria del 1936-39, dove vi è stata una trasformazione economica e produttiva guidata dal sindacato anarchico (e socialista), la cooperazione e il fare rete secondo la pratica del mutuo appoggio siano stati mezzi più efficienti rispetto a un’organizzazione gerarchica e autoritaria. Questo è un ulteriore caso che si aggiunge a quelli raccolti da Kropotkin per dimostrare nei fatti che non è vero che le società più efficienti siano quelle segnate dalla lotta per la sopravvivenza e non dalla collaborazione reciproca.Un gruppo sociale che si autoregola secondo principi libertari e quindi senza autorità dominanti è in grado di mettere da parte il principio della competizione meritocratica: «Alfie Khon (1999), infatti, dal punto di vista teorico cerca sia di rivalutare la cooperazione sotto molti punti di vista sia di svalutare la competizione, fattore di infelicità che mina la stima in noi stessi e avvelena tutta la vita sociale, a cominciare dal lavoro e dalla scuola, e che si dimostra controproducente anche dal punto di vista economico» (Candela e Senta 2017: 75). Khon richiama l’analisi antropologica di molte comunità primitive e non (indiane: Inuit, Irochesi, Piedi Neri e Zuñi; africane: Bathonga, Kikuyu e Tangu; messicane delle aree rurali e i Mixtechi; i kibbutz israeliani, gli aborigeni australiani, i norvegesi e i giapponesi). Casaña, Muñoz e Gil dimostrano che questo si è avverato in un altro importante tratto della storia, in un contesto di rivoluzione e di guerra.

Bauhäusle. Architettura come processo sociale

Bauhäusle non è solo uno dei dormitori studenteschi più popolari del campus suburbano di Vaihingen presso Stoccarda, ma è anche uno di quelli in cui si può riconoscere un forte senso di comunità basato su principi come l’auto-organizzazione, la condivisione del cibo e l’ecologia.Il recente anniversario dei 40 anni ci offre un’occasione per riflettere su questo luogo non comune in cui l’architettura ha svolto un ruolo centrale nel processo di creazione di questa particolare comunità malgrado il rapido avvicendamento dei suoi abitanti. Gli studenti che vi abitano attualmente hanno organizzato una settimana di festeggiamenti, tra il 3 e l’8 luglio 2022, con l’apertura dello studentato, una mostra con padiglione auto-costruito per spiegare il principio costruttivo, visite guidate, feste, concerti e altri eventi che hanno visto la partecipazione di studenti, visitatori curiosi, vecchi e nuovi abitanti. La presenza di ex abitanti testimonia il forte senso di appartenenza che questo edificio, con il suo processo progettuale condiviso, il suo peculiare metodo di auto-costruzione, auto-manutenzione e la sua particolare organizzazione, è in grado di trasmettere. Lo scopo di questo breve articolo è raccontare le strategie adottate per attivare varie forme di interazione sociale tra gli abitanti, descrivere il modo in cui essi si identificano nello spazio attraverso la sua modificazione e rendere conto del modo in cui l’edificio viene abitato e governato oggi.

Hacklabbo. Un esempio di autogestione delle tecnologie informatiche

Introduzione

Le tecnologie invasive, l’imposizione di una socialità digitale predigerita da parte dei colossi dell’informatica e dei media, la profilazione pervasiva a scopo commerciale e di controllo sociale, la censura governativa e aziendale e la commercializzazione di massa di prodotti hardware e software che utilizzano licenze limitanti e brevetti intellettuali come armi legali e dogane virtuali sono gabbie sociali in cui l’utente viene rinchiuso. Hacklabbo, il laboratorio hacker di Bologna, analizza, smonta e scardina le meccaniche in cui ci siamo fatti inscatolare rivendicando la libera circolazione (analogica e digitale) dell’informazione, il diritto alla privacy, all’anonimato, alla libertà di espressione e di invenzione, condividendo conoscenza attraverso l’autoproduzione dal basso di strumenti alternativi, di infrastrutture digitali e di comunicazione autonome che consentano una partecipazione politica consapevole.

Tana libera tutti. Scuola libertaria a Parma

La Rete per l’Educazione Libertaria collega una serie di realtà, presenti sul territorio italiano, attive nella sperimentazione con bambine e bambini, ragazze e ragazzi, di pratiche creatrici di comunità scolastiche autogestite. Tra queste Tana Libera Tutti, con sede a Mamiano, in provincia di Parma, è tra le prime nate in Italia: è attiva infatti dal 2007. La struttura che ospita quest’esperienza è la tipica casa rurale emiliana, un edificio largo e solido, diviso in diverse stanze ampie e luminose; il giardino che la circonda è vasto e alberato, attrezzato con uno spazio dedicato ai momenti assembleari oltre alle altalene e agli altri giochi. Una barchessa arricchisce ulteriormente l’area disponibile. Muovendomi nelle stanze posso apprezzare la cura riservata agli spazi dedicati alle varie attività e anche al relax. Posso osservare i diversi materiali a disposizione e alcune opere e creazioni. Sono angoli allegri, vivi, colorati. La cucina è ben organizzata con un movimento di persone che sistemano lo spazio prima di tornare a casa. Carlotta mi racconta di come, negli anni, l’organizzazione dei pasti abbia subito diversi aggiustamenti: un tempo era responsabilità di ogni famiglia cucinare secondo i turni organizzati, ora invece èpresente una cuoca. Questa presenza ha rafforzato il legame tra i bimbi che, un paio di volte al mese, cucinano e fanno il pane. Tana Libera Tutti è il primo progetto di educazione libertaria che ho conosciuto, diversi anni addietro, quando ancora abitavano un’altra sede.

Gli ecomusei. Una proposta alternativa al turismo di massa

Il concetto di ecomuseo nasce in Francia nei primi anni Settanta sull’onda dei movimenti di contestazione con l’obiettivo di superare schemi e definizioni di vecchio stampo anche nel mondo della cultura: «i teorici francesi volevano delineare una nuova formula museale in grado di oltrepassare i confini accademici, mettendo al centro dell’attenzione un approccio olistico del “fare cultura”, una provocazione intellettuale che solo nei decenni successivi è giunta a una declinazione operativa». La proposta scardina quindi l’idea di un museo statico e costituito da oggetti e apre l’orizzonte a un’osmosi con il territorio: in primo luogo l’ecomuseo non ha pareti e inoltre si configura indissolubilmente legato all’ambiente, come espressione del territorio da conservare. Il neologismo ecomuseo è stato coniato da Hugues de Varine, archeologo, storico e museologo, che nel 1971 ha dato questa definizione: «L’ecomuseo è un’istituzione che gestisce, studia, utilizza per scopi scientifici, educativi e in generale culturali, il patrimonio globale di una comunità che comprende la totalità dell’ambiente naturale e culturale di questa comunità. L’ecomuseo è quindi uno strumento di partecipazione popolare alla pianificazione territoriale e allo sviluppo comunitario». Interessante è notare come negli anni successivi de Varine aggiungerà una precisazione a questa definizione: «Rimpiango di aver usato la parola istituzione, alla quale preferirei oggi progetto, ma non avevo ancora scoperto che l’ecomuseo è prima di tutto un processo».

La Comune Pachamama: vivere l’utopia nel Rio Grande do Sul

Dopo la Fiera del libro anarchico di Porto Alegre e un tentativo fallito di entrare in Uruguay, decisi di partire alla volta della Comune Pachamama, proprio nel cuore del Rio Grande do Sul. E siccome in Brasile tutto è lontano… da Porto Alegre, capitale di quello Stato, a São Gabriel, piccolo centro rurale dell’interno, ci vogliono circa cinque ore di pullmann espresso. Poi, altro pullmann, che circola solo nei giorni dispari, e che, per più di quattro ore, percorre una strada sterrata fino a un posto chiamato Pavão. Qui c’era ad aspettarmi Daiane, una dei membri della Comuneche avevo conosciuto durante la Fiera, e ci facemmo altri tredici chilometri su una strada piena di buche. E finalmente, mentre il sole tramontava, eccomi nella Comune Pachamama, un’oasi di anarchia in una regione di grandi proprietari.

Diario di bordo

Giorno 1

Come normalmente succede all’inizio di una missione, salendo a bordo ci si ritrova sulla porta d’imbarco della nave, alcuni entrano mentre altri escono. Ci si saluta e ci si abbraccia tra chi è già stato assieme a bordo. Quelli che vanno via hanno spesso le facce smunte, dimagrite, i capelli incolti, si nota la stanchezza ma anche la gioia di avere fatto la cosa giusta.Spesso ci si scambia qualche parola, chi arriva di solito si limita a fare i complimenti a chi sbarca, sia nel caso di successo della missione, sia quando le cose sono andate male. Poche sono le parole da dire, solo gli sguardi parlano.Ecco, un gruppo di persone lascia la nave e un altro entra. Alcuni rimangono a bordo e continuano anche in questa missione. I nuovi arrivati vengono accompagnati da chi ha già qualche esperienza e devono prima di tutto lasciare i bagagli nella cabina. Inizierà un periodo di addestramento che durerà qualche giorno e inoltre si dovranno ambientare in questa nave così grossa, come un edificio di 6 piani, dove ci si perde spesso.

L’Isola del Tesoro

Al centro dell’«Isola», quartiere di Milano abitato un tempo da operai e artigiani, ora ricco di bar e locali alla moda non sempre economici, si trova la scuola «L’isola del tesoro», ospitata presso la sede della chiesa metodista di Milano, in via Luigi Porro Lambertenghi 28. Si tratta di una scuola rivolta a giovani migranti, di differente provenienza, minori non accompagnati e ricongiunti, richiedenti asilo, realizzata e sostenuta dall’associazione di promozione sociale «Asnada».

Lo Spaccio popolare autogestito di Bologna

Lo Spaccio popolare autogestito di Bologna è una delle attività che svolge il «Giaz», ovvero il Gruppo informale di acquisto zapatista. Vediamo quindi innanzitutto quale è stata la sua formazione e quali sono le sue caratteristiche.

Il «Giaz» si è costituito diversi anni fa ed è nato dalla scissione di un gruppo di compagne che formava il sottogruppo dello spazio sociale «Vag61» all’interno del «Gasbo», il Gruppo d’acquisto solidale di Bologna, per differenze di vedute sul senso della propria attività e della direzione che essa dovesse assumere.

La WESPE trent’anni dopo: retrospettiva di un progetto anarchico che ha molto da raccontare

Arrivo alla stazione di Neustadt an der Weinstrasse (Germania) un sabato pomeriggio di aprile e ad aspettarmi ci sono Ede e Michael, due signori sorridenti sulla sessantina passata. Li riconosco perché, come mi hanno preavvisato, hanno con sé una bicicletta con un rimorchio che dà nell’occhio. In effetti li vedo subito, il carretto è coperto da un vistoso telo rosso e nero, vestigia di gloriosi tempi passati. Il rimorchio, ci dice subito Ede, ha trent’anni ed è perfettamente funzionante. Lo producevano negli anni novanta, alla Wespe, lui con dei colleghi che si erano messi a farlo professionalmente, però poi non ha funzionato, costava troppo.

La Pinya, collettivo di autogestione educativa

E’ possibile un progetto di scuola che non coinvolga solo i bambini ma anche gli adulti nel processo educativo? In cui anche i genitori possono sostituire gli insegnanti perché hanno costruito insieme le dinamiche educative?

A Barcellona funziona da quasi vent’anni un progetto con queste caratteristiche, che si definisce “collettivo di autogestione educativa” e parte proprio dall’idea di non delegare la questione educativa a degli specialisti, e di prendere invece decisioni collettive per condividere la responsabilità pedagogica. La scelta di creare uno spazio educativo in cui si rispetta il processo di crescita e sviluppo dei bambini si inserisce tra le iniziative che puntano ad una trasformazione sociale, ovvero ad una lotta attiva fuori dalle istituzioni statali, considerando l’educazione ufficiale come strumento per perpetuare una società neoliberale. Si parte dal concetto che educare implica anche educarsi: non si tratta quindi di una semplice escuelita che si prende cura dei bambini, ma alla Pinya (questo il nome del progetto) ci si prende cura di tutto il gruppo, adulti e bambini.

MAG6: il denaro e la finanza come se la gente contasse qualcosa

A Reggio Emilia esiste da oltre trent’anni l’esperienza della MAG6, nata sul finire degli anni ‘80 per volontà di una quindicina di persone legate al movimento pacifista e non violento. Ciò che caratterizza fin da subito questa esperienza è la volontà dei fondatori e delle fondatrici di dare concretezza alla propria idealità, sperimentandosi in prima persona nel cominciare ad attuare immediatamente quella possibilità di cambiamento tanto auspicata. La MAG6 si struttura come cooperativa, qualcuno rinuncia al suo posto di lavoro stabile e garantito per dedicarsi in toto alla realtà nascente e, parallelamente al finanziamento dei progetti, cresce l’impegno a diffondere una differente cultura del denaro in un processo evolutivo del suo utilizzo. Nella consapevolezza della sua forza anche simbolica, lo sguardo sul denaro viene ribaltato guardandolo come strumento, non come fine. Uno strumento attraverso il quale cambiare la realtà che ci circonda sostenendo quelle progettualità che non remano contro i propri obiettivi, gli ideali, i desideri, la visione del mondo ma vanno nella stessa direzione apportando cambiamenti positivi nel contesto sociale in cui operano.

La cooperativa di autocostruzione ZMAG

La «Zelena Mreža Aktivističkih Grupa», ZMAG1 (rete verde di gruppi di attivisti) è una organizzazione non governativa nata nel 2002, che nel tempo ha realizzato un «eko-selo», un villaggio ecologico, adiacente al piccolo villaggio rurale di Vukomerić. Le attività dello ZMAG sono incentrate particolarmente sulla pratica e la promozione di soluzioni sostenibili, su programmi di istruzione e progettazione, sulla promozione e sviluppo di sistemi sociali ed economici giusti ed equi e sulle tecnologie appropriate. ZMAG è uno degli otto «Centri di studio per lo sviluppo sociale» in Croazia e si occupa, oltre che di tecnologie sostenibili per l’edilizia, anche dello sviluppo della permacultura ed ha recentemente iniziato a raccogliere una importante banca dei semi.

I Saltafossi. Pratiche di educazione libertaria

«Il salto. Viene spontaneo, c’è un fosso nel campo… Ci fermiamo a guardare, a ponderare se sia possibile passare dall’altra parte. A sentire se nelle gambe c’è la spinta, la molla, la forza del salto per arrivare di là. Sì!!! Si può!!! Si salta!!!». Così inizia l’avventura di questa esperienza educativa libertaria nel 2010 a Cadriano (BO). Un salto impegnativo, un osare senza protezioni, sorretti solo dall’entusiasmo e dalla convinzione profonda di dover provare ad andare al di là. La scuola (perché di scuola si tratta) che si riappropria del suo significato più autentico e originario: skolé, luogo di apprendimento, di relazioni, di divertimento, di creatività, di sperimentazione.

Granara: un ecovillaggio autogestito

Prendete una manciata di studenti universitari milanesi idealisti e sognatori, tuttavia desiderosi di progettare esperienze concrete, lontano dalla vita di una metropoli frenetica che offre certo una montagna di opportunità, ma crea, al contempo, notevoli problemi e disagi quotidiani ai suoi abitanti. Li accomuna uno spirito libertario non troppo specificato, una forte passione ecologica, la volontà di realizzare un “luogo altro”, insieme. Immaginateli, a un certo punto, girovagare tra la Toscana e l’Emilia alla ricerca di una terra dove dar vita a una realtà capace di coniugare una certa quota di immaginazione utopica con un pizzico di quel buon senso che ha reso celebri le casalinghe di Voghera. Una comunità di libertà e sperimentazione, dove provare a realizzare un diverso rapporto tra natura e civiltà. In cui svolgere attività ludiche e seminari di studio. Dove costruire un’opportunità per i figli di crescere insieme, a contatto con l’ambiente.

Edicola 518: quattro metri quadrati di libertà

A Perugia c’è un’edicola molto particolare che grazie al lavoro di un collettivo di giovani è riuscita ad animare il centro storico con dibattiti e appuntamenti culturali. Le peculiarità dello spazio dell’Edicola 518 hanno attratto l’attenzione internazionale, non solo per l’originale proposta editoriale ma anche per il grande merito di trasformare un luogo generalmente “di servizi” in un polo culturale e in questo modo riappropriarsi dello spazio comune della piazza per creare dibattito. Abbiamo cercato di approfondire e interrogare il loro percorso di crescita.

Approfondimenti

Medicina di genere: medicina della differenza

La concezione androcentrica della medicina tradizionale ha storicamente considerato la donna una variabile del genere maschile, un «piccolo uomo» da studiare nella sua specificità limitatamente all’apparato riproduttivo. Galeno, medico romano del II secolo d.C. riteneva che gli organi genitali femminili fossero una forma imperfetta, non sviluppata di quelli maschili: il corpo della donna era un corpo sbagliato, venuto male, non degno di studi particolari. Andrea Vesalio, fondatore dell’anatomia moderna, pur essendo tra i primi assertori del superamento dell’antica medicina galenica, continuava ad affermare che «l’organismo maschile e quello femminile non differiscono in alcuna maniera se non nell’apparato riproduttivo». Fino alla fine del 1600 non esisteva nemmeno un termine che definiva la vagina, considerata un «pene introflesso», secondo la descrizione che ne faceva Erofilo, medico del III secolo d.C.
Nella storia della medicina le donne sono sempre state assenti o, se presenti, relegate a ruoli marginali e non facilmente ricostruibili. Sono state mediche senza laurea, infermiere senza qualifiche, assistenti naturali e spontanee. Non avevano un ruolo ufficiale, né una formazione accreditata. È una questione di potere. L’esercizio della medicina infatti attribuisce al medico il potere di curare, esercitato per il bene del malato. Lo dice bene Rodrigo De Castro, medico del diciassettesimo secolo, nel suo trattato Medicus politicus quando afferma che come il sovrano governa lo Stato e Dio governa il mondo, il medico governa il corpo umano. Potere, governo e controllo biopolitico sono tre pilastri del patriarcato: non è difficile immaginare quindi perché la scienza medica sia stata un affare solo del genere maschile e abbia confinato le donne alle pratiche della cura, espressione di conoscenze tramandate che richiedevano un approccio empirico e non scientifico. Le donne presenti in campo medico andavano oscurate perché, occupando uno spazio professionale di potere che gli uomini avocavano a sé, erano scomode. Non dimentichiamo che molte delle streghe perseguitate in Europa a partire dal XV secolo erano levatrici, in linea con una lunga tradizione di pratica medica più empirica che teorica: la caccia alle streghe era quindi anche un tentativo del medico uomo di riappropriarsi del settore dell’ostetricia, spazio prettamente femminile.
L’applicazione della medicina di genere è recentissima. Nel 1991 la cardiologa americana Bernardine Healy, direttrice del National Institute of Health americano pubblicò sull’importante rivista scientifica «New England Journal of Medicine » un articolo in cui metteva in evidenza le differenze nella cura di uomini e donne con le stesse malattie cardiovascolari. L’errata convinzione che fossero patologie tipicamente maschili portava infatti a ritardi nelle diagnosi e nella cura delle donne, spesso sottoposte a terapie inappropriate. Da quel momento a livello mondiale è cominciato un graduale e lento riconoscimento del genere come uno dei determinanti di salute. In Italia l’approvazione della Legge 3 del 2018 ha definitivamente inserito il concetto di genere nel Servizio Sanitario Nazionale. Sesso e genere non sono sinonimi. Con il termine sesso ci si riferisce alle caratteristiche fisiche e biologiche dell’individuo che includono le concentrazioni ormonali, gli apparati riproduttivi, le espressioni dei geni e i loro effetti e le diverse conformazioni fisiche, ad esempio la più alta percentuale di grasso corporeo nelle donne. Il genere invece è associato al comportamento, allo stile di vita e all’esperienza. È un costrutto sociale, cioè qualcosa che è prodotto dalla società e non inerente al nostro corpo. La società è culturalmente fondata sul binarismo di genere, ovvero sulla rigida distinzione tra maschile e femminile, da cui vengono fatte derivare aspettative altrettanto rigide sui comportamenti, gli atteggiamenti, l’aspetto e i ruoli. Una persona che ha un’identità di genere in linea con il sesso biologico è definita cisgender. Transgender è invece chi presenta un’identità di genere diversa dal sesso biologico. Alcune persone transgender decidono di intervenire sulla loro incongruenza di genere, ovvero sul loro corpo, per renderlo più simile a come si sentono, attraverso trattamenti ormonali e/o chirurgici.
La medicina genere-specifica nasce dalla constatazione che le differenze tra uomini e donne in termini di salute sono legate non solo ai caratteri biologici e alla funzione riproduttiva, ma anche a fattori ambientali, sociali, culturali e relazionali. È una dimensione trasversale del sapere medico che adotta criteri di valutazione scientifica a partire dall’influenza del sesso e del genere sulla fisiopatologia umana e sulla sintomatologia clinica. Le malattie non si manifestano allo stesso modo nelle femmine e nei maschi. Torniamo alle patologie cardiovascolari che hanno fornito lo spunto per iniziare a parlare di medicina di genere. In Italia per le malattie del sistema cardiocircolatorio muoiono più le donne che gli uomini. Tranne nel periodo della vita in cui la donna è fertile, che vede gli uomini di pari età essere più colpiti, dopo la menopausa, al venir meno della protezione data dagli estrogeni, la frequenza di queste patologie nelle donne va progressivamente aumentando fino a superare l’uomo dopo i 75 anni. Allo stesso modo esistono malattie ritenute tipicamente femminili, come l’osteoporosi, che spesso negli uomini non sono considerate pur rappresentando anche per essi minacce alla salute soprattutto in età avanzata. Anche la depressione sembra essere meno frequente negli uomini rispetto alle donne. Ma i dati non tengono conto del fatto che il maschio ricorre con più difficoltà all’assistenza sanitaria in questo settore e che l’accertamento della malattia psichiatrica negli uomini è più complessa perché realizzata su linee guida che si basano solo sui disturbi manifestati dal genere femminile. La recente pandemia da SARS-CoV-2 ci ha fornito elementi per comprendere quanto le differenze biologiche legate al sesso e quelle socio-culturali legate al genere abbiano ricadute sulla salute delle persone. L’infezione da Covid-19 ha infatti manifestato un’ampia suscettibilità alla dimensione del genere, che ha riguardato tra l’altro la prevalenza e la severità della malattia e la mortalità. I dati disaggregati per sesso di cui si dispone hanno indicato infatti che, rispetto agli uomini, le donne hanno presentato meno complicanze e mortalità. Ciò è dovuto al fatto che le cellule del sistema immunitario delle donne hanno la capacità, grazie agli estrogeni, di attivare risposte più pronte, efficaci e durature rispetto a quelle degli uomini, rendendole più resistenti alle infezioni. Il risvolto negativo è che questo le rende più suscettibili all’insorgenza di patologie mediate dal sistema immunitario, le cosiddette malattie autoimmuni. Ma le donne, anche se meno colpite in termini di morbilità, sono coloro che hanno subito maggiormente l’impatto sociale, economico e di violenza della pandemia con un rischio circa doppio di sviluppare o di aggravare sindromi patologiche a lungo termine. Anche la ricerca sui farmaci e sui dispositivi medici risente della concezione androcentrica della medicina. Questi ultimi ad esempio sono studiati prevalentemente sull’uomo: lo sono le mascherine che abbiamo portato durante la pandemia, che hanno un impatto maggiore sulla cute delle donne, e che sono state da loro indossate molto più che dagli uomini (pensiamo soltanto al personale impiegato nelle strutture sanitarie); lo erano i primi modelli di cuore artificiale usati per le persone in attesa di trapianto, troppo grandi per il torace della maggior parte delle donne; lo sono i pacemaker necessari per «sincronizzare» il cuore e risolvere lo scompenso cardiaco, più utilizzati negli uomini che nelle donne, pur traendone queste ultime maggior beneficio.
Ormoni e genetica giocano un ruolo importante anche nel meccanismo di azione dei medicinali. Solo dopo il 1993, su richiesta della Food and Drug Administration, gli studi clinici sui farmaci hanno cominciato a includere le donne. Il problema però non è solo quello di dare rappresentanza al genere femminile, ma di definire specifiche analisi di genere, gestendo separatamente i parametri di efficacia e sicurezza sui due sessi: quando si tratta di analizzare i dati il sesso viene spesso trascurato. Non serve mettere in commercio i farmaci con le confezioni rosa per le femmine e azzurre per i maschi se contengono lo stesso principio attivo nelle medesime quantità: occorre definire dosaggi diversi per i due sessi in modo da garantirne la massima efficacia e la minor tossicità.
Sebbene sesso e genere siano due concetti diversi, sono molto legati tra di loro e spesso è difficile separarne l’interazione. In alcuni casi il sesso influenza la salute modificando il comportamento, che è più associato al genere. Questo accade, ad esempio, quando il testosterone influisce sulla probabilità di sviluppare comportamenti «maschili» aggressivi portati alla prevaricazione e al dominio. Viceversa, comportamenti ripetuti, come cattive abitudini, scelte alimentari sbagliate, esposizione a stress o inquinamento possono portare a modificazioni epigenetiche, ovvero a quelle modificazioni ereditabili che portano a variazioni dell’espressione dei geni senza però alterare la sequenza del DNA. Sui comportamenti sappiamo che incidono pesantemente le diseguaglianze e gli stereotipi di genere su cui è normata la società: a livello globale sono le donne a essere maggiormente svantaggiate nell’accesso alle cure, a causa delle disuguaglianze di genere e delle discriminazioni sociali verso il genere femminile, con effetti pesanti sulla loro salute.
Non bisogna cadere nell’errore di considerare la medicina di genere come la medicina delle donne. Potremmo invece definirla come la medicina della differenza, un approccio diverso e innovativo alle disuguaglianze di salute, a partire dall’insorgenza e dall’evoluzione delle malattie, dovute all’appropriatezza della diagnosi e della cura, ma anche alle disuguaglianze sociali, culturali, etniche, psicologiche, economiche e politiche che determinano il vissuto delle persone.

Alcune idee per un anarchismo propositivo

«L’anarchia non è cosa del futuro ma del presente; non è fatta di rivendicazioni ma di vita»
Gustav Landauer

Nelle rivista «Pagine Libertarie» (20 novembre 1922) Camillo Berneri scriveva:
«Noi siamo sprovvisti di coscienza politica nel senso che non abbiamo consapevolezza dei problemi attuali e continuiamo a diluire soluzioni acquisite dalla nostra letteratura di propaganda […] L’anarchismo deve conservare quel complesso di principi generici che costituiscono la base del suo pensiero e l’alimento passionale della sua azione, ma deve sapere affrontare il complicato meccanismo della società odierna senza occhiali dottrinari e senza eccessivi attaccamenti all’integrità della sua fede» (Berneri).
Questa riflessione di Berneri è stimolante e arricchente per chi desidera coniugare una visione con una serie di progetti. La visione è il sogno e la cornice di riferimento, i progetti sono le possibili soluzioni concrete e necessariamente sperimentali che si possono proporre di fronte ai tanti problemi e alle tante criticità del vivere assieme. Pensiero e azione dunque intrinsecamente legati e reciprocamente confrontati. Partendo da questa premessa, appare sempre più evidente come l’anarchismo (o meglio gli anarchismi), storicamente determinatesi, debbano sistematicamente fare i conti con la loro capacità di essere da un lato dentro il corso della storia, seppure per contrastarne un processo di sviluppo del dominio, ma al contempo dall’altro non possono più permettersi, pena la loro insignificanza, di stare al di fuori della storia stessa.
Questa sfida appare sempre più centrale e necessariamente da cogliere, superando una pratica di lotte esclusivamente di resistenza e di denuncia delle varie forme che assume sistematicamente il dominio, per indirizzare la propria azione in lotte e sperimentazioni fatte di proposte concrete e di propositività. Nel 1961 nelle pagine del settimanale anarchico inglese «Freedom» appare un articolo firmato da Colin Ward dal titolo: Anarchism and Respectability. Scrive Ward:
«Il tema che affronto in questo simposio è “siamo sufficientemente rispettabili?”. E con questa domanda non intendo interrogarmi sul nostro abbigliamento, sulla conformità della nostra vita privata agli standard statistici o sul modo in cui ci guadagniamo da vivere, ma sulla qualità delle nostre idee anarchiche, se esse siano meritevoli di rispetto».
Verificare questa rispettabilità significa chiedersi sistematicamente se le idee di questa grande utopia siano migliori e più utili a risolvere i problemi che uomini e donne si trovano ad affrontare quotidianamente. Se cioè l’anarchismo sia superiore ad altre ideologie autoritarie per determinare una società più libera, più giusta, più rispettosa, più solidale. Ma fin da subito, senza attendere che un’improbabile e comunque non sempre auspicabile rivoluzione possa portarci in un mondo migliore di quello che abbiamo. Conservando uno spirito rivoluzionario possiamo intraprendere qui e ora quel mutamento individuale e sociale in senso libertario a cui tendiamo idealmente.
In altre parole, la domanda qui posta può essere tradotta e sviluppata se c’è la convinzione che, al posto di un anarchismo «apocalittico» mirato al «tutto o niente», abbia ragione di essere un anarchismo pragmatico, teso a dar vita a comunità nuove, qui e ora, utilizzando il pur difficile e contraddittorio materiale presente nella nostra vita quotidiana. Il pensiero anarchico e l’anarchismo come movimento (gli anarchismi) si sono caratterizzati in quanto hanno assunto come fondativa la dimensione della negazione. La loro forza rivoluzionaria si è espressa storicamente, nel pensiero dei classici, soprattutto nella dimensione del rifiuto (di ogni forma di dominio). Ma la parte destruens dell’idea anarchica non è, a mio modo di vedere, più in grado (da sola) di cogliere le grandi opportunità e le sfide che la contemporaneità pone alle ideologie otto-novecentesche. Inoltre, è limitativo, e talvolta persino strumentale, risolvere l’originalità e la potenza dell’anarchismo dentro questa dimensione di negazione.
La negazione di ogni forma di dominio resta un tratto essenziale nella definizione dell’idea anarchica, ma vorrei darla come acquisita e consolidata e, soprattutto, sottolinearne la sua attualità in quanto si converte in visione positiva e prefigurativa di una società diversa. Insomma ribadire che oggi, più che mai, c’è l’urgenza di pensare a un anarchismo post-negativo e impiegare tutte le nostre risorse per sviluppare alcune linee risolutive libertarie che invertano la tendenza intrinsecamente autoritaria presente nella società e, allo stesso tempo, evitino le costruzioni ideologiche e astratte di un «totalmente altro». Nell’immediato dopoguerra Herbert Read e Alex Confort, Geoffrey Ostergaard, George Molnar, Paul Goodman, Martin Buber, George Woodcock, Murray Bookchin, Colin Ward, Gaston Leval e le riviste «Politics» di Dwight Macdonald, «Anarchy» di Ward, «Volontà» di Giovanna Berneri e Cesare Zaccaria, assieme ad altri contributi, hanno cercato di indicare una via diversa rispetto a quella più tradizionale, con lo scopo di aggiornare non solo il pensiero ma, soprattutto, l’azione degli anarchici e delle anarchiche. Potremmo riassumere nel modo seguente le caratteristiche fondamentali di questo percorso libertario di questi anni:
a) Scetticismo nei confronti della concezione insurrezionalista: critica alla sua realizzabilità e convinzione che un cambiamento genuino e profondo deve scaturire da un cambiamento della personalità individuale e delle relazioni sociali;
b) «La libertà deve essere conquistata un centimetro alla volta ed è necessario rimuovere le catene che ci siamo auto-imposti prima che si possa agire come esseri umani responsabili» (Ostergaard);
c) «Lo Stato non è qualcosa che può essere distrutto da una rivoluzione, è una condizione, una relazione tra gli esseri umani, un modo del comportamento umano; lo distruggiamo contraendo nuove relazioni, comportandoci in modo diverso» (Landauer);
d) «Una società libera non può essere realizzata sostituendo un ordine nuovo a quello vecchio, ma piuttosto con l’ampliamento delle sfere di azione libere, fino a che esse vengano a costituire il fondamento dell’intera vita sociale» (Goodman);
e) «Mentre il gradualismo marxista e socialista cerca di operare attraverso lo Stato estendendo le attività statali fino a che lo Stato inghiotte l’intera vita sociale, per il gradualismo libertario si tratta, qui e ora, di contrarre relazioni diverse da quelle statali, relazioni basate sul self-help cooperativo e sul mutuo appoggio» (Ostergaard);
f) Differenza fondamentale tra pubblico e statale e privato;
g) Ciò che dovrebbe preoccupare e impegnare gli anarchici sono i «cambiamenti sociali attraverso cui le persone possono allargare la propria autonomia e ridurre la soggezione all’autorità esterna» (Ward);
h) Agire con spirito rivoluzionario in una situazione data (Read);
i) Scetticismo per l’idea stessa di società anarchica. Molnar la chiama «teorema dell’impossibilità». Non è verosimile (o poco) che l’anarchia possa ottenere il consenso universale a meno che non venga usata la forza per imporla. Ma, Malatesta dixit, l’anarchia non si fa per forza. Ward scrive: «Ogni società umana, a eccezione delle utopie o anti-utopie più totalitarie, è una società pluralistica con vaste aree che non si conformano ai valori ufficialmente imposti o dichiarati»;
j) Non basta neanche la risposta esclusivamente individuale e di protesta permanente, bisogna cambiare le strutture sociali e le relazioni comunitarie. Infatti, scrive Ward: «se l’idea di una società libera può essere un’astrazione, quella di una società più libera non lo è». L’idea di una società anarchica non va intesa tanto «come scopo da realizzare ma come scala graduata, unità di misura, mezzo attraverso cui valutare la realtà». L’anarchia viene in questo modo vista come un criterio normativo; cioè il criterio etico chiave per giudicare i meriti delle varie società sta nella misura in cui sono anarchiche;
k) Distinzione tra principio sociale e principio politico: Martin Buber scrive: «Il governo tende ad appropriarsi di più potere di quanto sia necessario in una data situazione […] La misura di questo eccesso rappresenta l’esatta differenza tra amministrazione e governo […] Surplus politico […] il principio politico è sempre più forte rispetto al principio sociale richiesto da una certa situazione. Il risultato è una continua diminuzione della spontaneità sociale»;
l) L’anarchia intesa come forma di rapporti sociali è già presente nella società: «l’anarchia lungi dall’essere la rappresentazione teorica di una società futura è la descrizione di un modo di organizzazione umana, radicato nell’esperienza della vita quotidiana, che opera a fianco delle tendenze autoritarie dominanti, e a dispetto di esse le alternative anarchiche sono già presenti negli interstizi della struttura del potere dominante. Se vogliamo costruire una società libera, parti di essa sono già disponibili». Le caratteristiche fondamentali comuni a molte esperienze concrete che vanno in questa direzione sono: un forte riferimento all’azione diretta individuale (agenti e non consumatori di un bene prodotto per loro), riferimento significativo a relazioni mutualistiche e di mutuo appoggio: l’anarchia così intesa è una sorta di «auto-determinazione sociale» che può trovarsi spesso in contrasto sia con la burocrazia dello Stato che con le ingiustizie del liberismo economico.
m) L’anarchia serve a risolvere problemi: cercare soluzioni anarchiche invece che indugiare sulla retorica della rivoluzione;
n) Il fallimento degli anarchici, secondo Woodcock, è dovuto «alla scarsa propensione a fare proposte specifiche che possano condurre alla loro vaga e fumosa visione di una societàidilliaca», le masse hanno preferito seguire chi poteva offrire soluzioni concrete a problemi concreti;
o) Gaston Leval critica l’idea che l’anarchismo debba essere definito unicamente per ciò cui si oppone: «un movimento sociale non può vivere sulla negazione». L’anarchismo deve offrire un programma costruttivo e a tal fine «dobbiamo acquisire capacità e background per convincere coloro che intendiamo influenzare che hanno a che fare con uomini capaci, seri e responsabili, non semplici agitatori o dilettanti della rivoluzione»;
p) L’anarchia è un tipo di rapporti sociali caratterizzati dall’azione cooperativa egualitaria di individui che si auto-definiscono come tali. Se la sfera della mutualità autogestita si espande ricoprendo l’intera vita sociale, allora senza dubbio avremmo una società senza Stato. Ma anche se non viviamo in una società senza Stato, possiamo avere a disposizione una quantità maggiore o minore di mutualità, e quindi di anarchia.

L'ennesimo esperimento del "Laboratorio Argentina": l'anarco-capitalismo di Javier Milei

Dal 10 dicembre scorso la Repubblica Argentina ha un nuovo Presidente. Si tratta di Javier Milei, che prima di diventare Deputato del Congresso nel 2021, era noto al pubblico argentino come polemista televisivo e radiofonico su temi di politica ed economia. Tanto sui media quanto nella sua recente carriera politica, Milei ha sempre ostentato la predilezione per teorie libertarie estreme, così da essere avvicinato da più di un osservatore alla dottrina anarco-capitalista.
In questo contributo sono definiti il quadro di riferimento ideologico e i principali elementi di questa filosofia politica (Sezione 1), invero poco nota, ed è proposta un’interpretazione dei motivi di instabilità economica dell’Argentina che hanno portato l’elettorato a optare per la proposta di Milei (Sezione 2); infine, sono analizzati gli elementi di continuità e di rottura, soprattutto quelli più vicini alla dottrina anarco-capitalistica, riscontrabili nel discorso politico del neo-Presidente (Sezione 3).

Il futuro dell'umanità alla svolta dell'Intelligenza Artificiale

Il 2023 è indubbiamente stato un anno molto denso per l’intelligenza artificiale (IA). Un primo evento eclatante risale ad aprile, quando un team di esperti (manager, professori, tecnici del settore e intellettuali vari) si è unito in un appello per una moratoria per fare una pausa sui grandi progetti di addestramento delle intelligenze artificiali che alcune grosse aziende stanno portando avanti. Il messaggio invitava a fermarsi un attimo per valutare i rischi e per dare tempo alle istituzioni di comprendere l’evoluzione degli scenari possibili, alcuni dei quali ipoteticamente molto minacciosi. Tra i firmatari c’erano persone del calibro di Elon Musk (che investe ingenti somme nell’IA) e Noah Yuval Harari.Nei mesi successivi è stato approvato dal Parlamento Europeo il lavoro preliminare per una legge europea che regolamenti il settore, il cosiddetto «AI Act», che però sarà attuativo solo nei prossimi anni.Infine, a novembre, è stato inaugurato un istituto dedicato all’IA, promosso e finanziato dal governo britannico (che però non fa più parte del Parlamento Europeo dopo la Brexit). L’AI Safety Institute si occupa di studiare gli avanzamenti in corso in campo di IA, valutandone le implicazioni e i rischi, in modo da poter collaborare con le istituzioni e le aziende mondiali per un’azione di contenimento etico. Con questa mossa il Regno Unito si posiziona come paese leader nell’investimento e nella ricerca ufficiale sui rischi dell’IA.

Il cemento è capitalista?

Il Capitale e lo Stato, che dominano la società moderna, agiscono come un re Mida a rovescio, o come degli alchimisti al contrario: tutto quello che toccano si trasforma in vile piombo e in pena per gli umani, anche quello che si potrebbe chiamare oro. Questo vale naturalmente pure per uno dei grandi campi dell’attività umana: costruire e abitare.

È noto come il capitalismo industriale abbia prodotto fin dai suoi inizi nel Settecento grandi cambiamenti nel concetto di abitare: la crescita delle agglomerazioni urbane ha aperto le porte a nuove disuguaglianze trasformando l’abitazione in merce. Tra le critiche più frequenti troviamo la distribuzione inuguale dello spazio secondo i gruppi sociali, l’insalubrità degli alloggi popolari, e la trasformazione delle abitazioni in oggetti di speculazione. Altri osservatori hanno messo in risalto come certe strutture urbanistiche e architettoniche esprimessero una logica del potere: soprattutto nel caso della costruzione di larghe strade dritte che servivano a combattere gli eventuali rivoltosi che non potevano più erigere barricate o nascondersi nei vicoli stretti e labirintici dei quartieri medievali. I boulevard di Parigi sono l’esempio più noto, ma trovano riscontro in quasi tutte le città europee. Sul piano psicologico invece queste trasformazioni creavano un senso di sottomissione ai padroni, agli occhi dei quali si rimaneva sempre esposti, e sul piano simbolico costituivano un trionfo dei valori di efficacia, velocità, visibilità delle merci e libertà dei flussi. La sostituzione delle antiche mura medievali con dei boulevard, fenomeno frequentissimo alla fine dell’Ottocento, era una vittoria visibile del progresso capitalista.

Scuola di montagna

Vado spesso nelle scuole a parlare dei libri che scrivo, invitato dagli insegnanti. Incontrando i ragazzi e le ragazze, e ascoltando i loro interventi, non ne ho affatto l’impressione di un pubblico annoiato: anzi sono tra i lettori più acuti, e quelli che mi fanno le domande più difficili. A differenza di tanti adulti, cercano ancora nei libri delle chiavi di comprensione del mondo. Hanno antenne sensibili al loro tempo, e in questi anni sono sempre più allarmati dalla crisi ambientale. Io nei libri racconto storie della montagna contemporanea, con uomini, donne, animali, alberi, torrenti e ghiacciai, con le cose che stanno succedendo in montagna ora, e loro ci trovano notizie da quella crisi. I cambiamenti non sono solo verso il peggio, questo ci tengo a raccontarglielo. È vero che i ghiacciai scompaiono, la neve è scarsa e l’acqua sempre più rara e preziosa, ma intanto sono avanzati i boschi, per esempio. È tornato il lupo e la fauna selvatica sta meglio di un tempo, almeno in Italia. Con il lupo è arrivato anche un altro genere di abitante: persone che, con pochi anni più di loro, scelgono la montagna come luogo in cui vivere, dopo che tanti di quelli che ci erano nati sono andati via. Racconto che per alcuni di noi quello è un luogo di libertà, dove c’è più spazio, conta un po’ meno il denaro, e possiamo vivere nel modo che ci piace – così in questi incontri riesco a infilare anche un po’ di anarchia! Le ore volano e ogni tanto alla fine dico: perché la prossima volta non venite a trovarmi voi? Lo dico anche agli insegnanti quando mi invitano. Invece che portare me in un’aula, a parlare di alberi e torrenti, perché non portate i ragazzi nel bosco, e ne parliamo lì?Le poche volte in cui poi è successo, li ho trovati del tutto spaesati. Gli studenti delle grandi città in particolare: alcuni non hanno mai camminato su un sentiero in vita loro. Pochi sono in grado di distinguere gli ecosistemi, i segni delle stagioni e del lavoro umano, e di nominare gli alberi e gli animali. Il paesaggio che hanno intorno è una lingua straniera. Immagine cara a Mario Rigoni Stern: il paesaggio, diceva il grande scrittore-montanaro, è una forma di scrittura. Quella della città la impariamo fin da piccoli, tutti sappiamo che cos’è un semaforo, un marciapiede, un autobus, un grattacielo, una chiesa: è diventata la nostra lingua madre. Ma quella del bosco non la sappiamo più leggere né parlare. Quale segno più evidente della crisi ambientale, che è una spaccatura tra l’uomo e la terra? Come potremmo prendercene cura, o vivere in armonia con lei, se non la conosciamo più? Dall’altra parte, mi interrogo e mi interrogano spesso sul futuro economico delle nostre montagne. Agli ambientalisti viene sempre rimproverato di battersi contro i vari progetti, senza averne uno da proporre a chi in montagna ci vuole vivere e lavorare, non per forza tornando a pascolare le capre. Capisco la critica perché il tema riguarda tanti miei amici. L’economia, su da noi, oggi è fondata sul turismo, tolta quella poca agricoltura che resiste (ma anche il vino, il formaggio, le patate, in fin dei conti è ai turisti che vengono venduti). E il turismo è una di quelle economie che sembrano non conoscere un punto di equilibrio: per stare bene deve crescere, a quanto pare, e produrre sempre più clienti, e così più cantieri, più alberghi, più ristoranti e centri benessere, più funivie e piste da sci. Da qui, le lotte di noi ambientalisti. E tu che non vuoi la funivia e la pista, mi chiedono i miei vicini, che cosa proponi di fare?Propongo di fare scuola in montagna. In fondo in inverno la facciamo già: con i maestri che sulle piste insegnano ai ragazzi a sciare. Ma perché non continuare anche nelle altre stagioni, e insegnare le tante cose che in montagna si possono imparare? Per esempio, da dove viene l’acqua e come la usiamo. Com’è fatto il ghiaccio, la neve, che cos’è una sorgente, come funziona un acquedotto, un canale d’irrigazione, una centrale idroelettrica (questa è la Storia di un ruscello di Elisée Reclus: ci infilo sempre un po’ di anarchia). Oppure la vita del bosco: come convivono tra loro gli alberi, quali diversi caratteri hanno, come l’uomo ha imparato a coltivarli e usarli, come il bosco può rappresentare un modello di comunità armoniosa e cooperativa (e questo è lo splendido lavoro di Stefano Mancuso, altro anarchico prestato alla botanica). E ancora, l’allevamento del bestiame, che a conoscerlo ci renderebbe un po’ più consapevoli quando decidiamo cosa mangiare o non mangiare, gli infiniti usi delle piante selvatiche, il comportamento degli animali. O semplicemente: guarda com’è fatta una nuvola, tocca la corteccia del larice, senti cosa si prova a immergere i piedi in un torrente. Non credete che ogni scuola di città dovrebbe portare i ragazzi a imparare queste cose? Penso che loro ne sarebbero felici.

L’era del dominio del turismo. Come conviverci

Quella che abbiamo vissuto dalla fine della seconda guerra mondiale a oggi può sicuramente essere definita l’era del dominio del turismo. C’è stata una breve interruzione di crescita negli anni pandemici, ma il trend è destinato a tornare a crescere. I dati ufficiali dell’Organizzazione Mondiale del Turismo ci dicono che a livello globale nel 2022 si sono mosse 917 milioni di persone, nel 2019 erano 1,4 miliardi, mentre nel 1950 erano solo 10 milioni di persone circa.Un turismo che è cambiato con grande frequenza. Nonostante le numerose crisi che si sono succedute dal 2008 in poi, un unico fattore non è mutato: la voglia di viaggiare delle persone è aumentata costantemente. Parafrasando Graeber (Graeber 2022) la prima forma di libertà primordiale era la libertà di andarsene, che è anche la libertà di viaggiare.Per analizzare in maniera adeguata quanto sta avvenendo nel turismo attuale è necessario fare un minimo di storia di questo settore.Il turismo di massa che ha caratterizzato tutta questa epoca vede la luce nel 1841, quando Thomas Cook fonda il primo tour operator per vendere pacchetti di viaggio alla borghesia inglese.Il momento però che segna una vera cesura nel modo di viaggiare precedente e lo avvicina sempre di più a quello contemporaneo è il 1936, quando in Francia, per la prima volta a livello mondiale, viene istituito un periodo di ferie pagate per tutte le lavoratrici e i lavoratori. In Italia questo passaggio è sancito dalla Costituzione del 1948 dove troviamo scritto, all’articolo 36, che «il lavoratore ha diritto a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi». Come è facile comprendere la nascita del primo tour operator, cioè di qualcuno che per lavoro organizza il viaggio per il cliente, e le ferie pagate che iniziano a consentire ai lavoratori di spendere e di spostarsi per piacere hanno accelerato la diffusione del turismo di massa, diventata poi esponenziale durante il boom economico quando molte persone, in Italia enon solo, hanno iniziato a poter acquistare l’automobile e ad aver maggiori risorse per muoversi. Così sono nate le prime destinazioni turistiche nel più classico scambio domanda-offerta tipico del libero mercato, come sulla costa romagnola dove numerose famiglie hanno capito l’opportunità di business che si stava venendo a generare e hanno iniziato ad affittare le stanze libere e ad aumentare le dimensioni delle proprie abitazioni trasformandole in pensioni e successivamente in alberghi.Per alcuni decenni il turismo è continuato a crescere in maniera graduale, ma costante, fino ad arrivare ai primi anni ’90 quando altri due grandi eventi hanno rivoluzionato completamente il modo di viaggiare e portato il mondo ai dati del 2019: l’avvento delle compagnie aeree low cost e la digitalizzazione di massa. Ryanair, la compagnia low cost per eccellenza che ha abbattuto fortemente i costi dei viaggi aerei a scapito del servizio, è nata nel 1985 e ha iniziato a crescere intorno agli anni 2000. Con l’avvento di Ryanair, Easyjet, Wizzair e altre i viaggi aerei sono diventati alla portata di chiunque e questo, sommato alle modificazioni sostanziali avvenute nel mondo del lavoro, ha causato un cambiamento anche nel modo di viaggiare delle persone: se prima si facevano oltre venti giorni di vacanze in località vicino a casa e non ci si spostava dal proprio albergo, adesso si prediligono vacanze brevi di 2-3 giorni nel corso dell’anno in destinazioni facilmente raggiungibili in un paio d’ore di aereo.

L’Iran e l’Islam politico. Una lotta continua per la libertà

Sfogliando le pagine della storia moderna iraniana, si comprende come negli ultimi secoli in questo antico paese la religione e il clero sciita abbiano sempre avuto un ruolo attivo nella politica. La religione, rappresentata dall’apparato clericale sciita, è stata l’alleata principale dell’istituzione monarchica iraniana per secoli (dal XVI secolo fino al 1921), una fonte legittimante per le dinastie governanti e una valvola di sfogo nei momenti in cui il furore della società scrollava le basi del potere dell’ancien régime iraniano. Tuttavia, la Repubblica islamica, fondata nel 1979 da Khomeini con il contributo di gruppi marxisti, ha costituito una novità storica: la religione, come istituzione, è divenuta da allora unico riferimento e detentore del potere politico.L’Iran odierno è l’eredità diretta dell’Impero Safavide, dinastia sciita che governò la Persia tra il 1501 ed il 1736. Dopo l’invasione degli arabi musulmani, fu lo Scià Ismāīl, fondatore dell’Impero Safavide, a unire sotto un’unica giurisdizione gran parte dei territori dell’antica Persia. Con i Safavidi l’Iran rinacque come Stato-nazione dotato di un governo nazionale e finì un lungo periodo di frammentazioni, guerre civili e occupazioni straniere. La storiografia iraniana non è stata in grado di chiarire se la transizione verso lo sciismo sia stata soltanto una maledizione o abbia avuto anche qualche impatto positivo. I Safavidi imposero con la forza la loro versione dell’Islam, che sotto molti punti di vista era in contrasto con l’Islam ortodosso professato dagli arabi. Lo sciismo diventò un elemento distintivo dei Persiani dal resto del mondo islamico, all’epoca quasi unanimemente rappresentato dall’Impero ottomano.

Come vuoi essere punito? Le alternative al carcere tra disciplina ed esclusione

La violenza del carceree le alternative coerenti con la sua funzione

Quando a Michel Foucault venne chiesto di parlare di alternative al carcere in occasione di un convegno a Montreal nel 1976, lui non nascose un certo imbarazzo. In quell’occasione provò a spiegare il suo disagio con un esempio. Parlare di alternative al carcere significa parlare di alternative tra diverse punizioni. Sarebbe come chiedere a un bambino di sette anni: «Senti, visto che tanto sarai punito, cosa preferisci: la frusta o saltare il dolce?». Ecco, questa osservazione racchiude il nocciolo del problema. La risposta a questa domanda sarebbe pressoché unanime e sembra avere una portata più evocativa che euristica. Ma se evitiamo di concentrarci sulla probabile risposta e ci soffermiamo piuttosto sul semplice fatto che la domanda è stata posta, riusciamo a cogliere un aspetto profondo, forse essenziale, delle misure alternative (nello specifico) e di un’alternativa al carcere (in generale). A connotare l’alternativa al carcere è proprio la possibilità di scegliere tra il carcere e qualsiasi altra cosa che, almeno in teoria, dovrebbe essergli sempre preferibile.Senza andare troppo lontani, è dalla prima metà del Novecento che si parla del carcere come luogo di sofferenza per eccellenza, rispetto al quale è e deve essere preferibile ogni situazione di degrado materiale e morale all’esterno di esso.

Hippies neoliberisti. Lavorare dai paesi di vacanza

Fino a ieri contavano la casa, l’auto e le otto ore di lavoro, oggi invece il motto è: vivi secondo le tue regole, trova il tema che ti sta a cuore, lavora in modo flessibile e in qualsiasi parte del mondo.Sempre più persone in Germania vogliono seguire questo imperativo da millennial, di indipendenza, ricerca di significato e avventura. Secondo un sondaggio Bitkom, il 35% degli intervistati in età da lavoro lo farebbe prevalentemente dall’estero, se ne avesse la possibilità. In testa a questa tendenza ci sono i cosiddetti nomadi digitali. Come tali si definiscono coloro che non solo lavorano prevalentemente all’estero, ma che si spostano nelle zone calde senza una residenza fissa e non hanno bisogno di altro per guadagnare se non di un computer portatile e di una connessione internet stabile.Una parte cospicua di questa comunità, molto presente in rete, mette in scena il proprio stile di vita come alternativa hippie a una vita noiosa e alienata da colletti bianchi. «Voglio finalmente realizzare i miei sogni, invece di lavorare tutta la vita per i sogni di qualcun altro», è un aforisma spesso condiviso nei gruppi Facebook della community. Ma il fenomeno mostra anche i vuoti e i paradossi delle società tardo-capitaliste: essere liberi e non vincolati significa buttarsi a capofitto nel libero mercato.

«Politics» e i suoi autori nelle pieghe della storia

“La prima Nuova sinistra era composta da radicali degli anni 1930-1945 che non ruppero solo con lo stalinismo ma anche con il leninismo, e non solo con il leninismo ma anche con il trotskysmo, e non solo con il trotskysmo ma in buona parte con il marxismo stesso. Negli Stati Uniti molti di quelli che dovrebbero essere considerati membri della prima Nuova sinistra erano associati con la rivista politics” (Lynd 1997: 67).

Percorsi di guerra e violenze - Le ipocrisie di un antimperialismo parziale

Lo scatenarsi della guerra contro l’Ucraina da parte della Federazione Russa ha portato in evidenza un aspetto di cui poco si parla, che personalmente ritengo inquietante. Riassumendone il senso, si potrebbe dire che si tratta della palese partigianeria di una parte consistente della sinistra, intesa come complesso culturalmente identificabile, contro le visioni politiche e sociali del blocco occidentale, di cui pure storicamente e culturalmente è parte. Non mi riferisco tanto agli schieramenti istituzionali, che ormai ben poco hanno a che fare con i fondamenti teorici ed etici che a noi interessano, ma a un’area di opinione pubblica e di pensiero, ampia e variegata, convinta di far parte del patrimonio di scelte politiche e di idee tradizionalmente considerate di sinistra.Nonostante l’evidenza degli avvenimenti infatti, dopo aver condannato l’aggressione militare da parte della Russia quasi in modo frettoloso e per dovere, il primo elemento subito emerso in modo preponderante è stata l’affermazione decisa e accusatoria che la responsabilità di un simile attacco bellico non è addebitabile solo al «nuovo zar». Anzi, è maturata in breve la convinzione che in un certo senso Putin sarebbe stato costretto a scatenare la guerra dalle continue e sistematiche invadenze territoriali della NATO, tendenti per calcolo ad accerchiarlo e indebolirlo.

Il senso della bioetica per la sopravvivenza e la salute dell'umanità

Scienza e filosofia sono discipline molto antiche, cresciute assieme per lungo tempo stimolandosi a vicenda. Se pensiamo a un prototipo di scienziato filosofo, chiunque può facilmente richiamare alla memoria il greco Ippocrate, vissuto nell’isola di Kos nel V e il IV secolo a.C. Egli affiancava rigorose procedure logiche (pur con tutti i limiti della sua conoscenza dell’epoca) a profonde riflessioni filosofiche. Era attento osservatore dell’ambiente, nel quale cercava elementi, che annotava scrupolosamente, per spiegare le cause dei sintomi dei malati che visitava, senza discriminazioni in base al ceto sociale, tra l’altro. Non solo, ma la prima grande scuola di medicina, a Kos, è stata anche un ospedale concepito con un approccio globale alla salute dei malati: l’Asklepieion. In quel luogo, le cui rovine sono ancora visitabili, erano presenti le stanze per le visite mediche, quelle per le degenze, gli spazi sacri per la preghiera, un magnifico e confortante panorama sul mare con la costa di fronte (oggi Turchia) e in seguito furono aggiunte anche le terme, dai Romani. Un vero e proprio approccio complesso alla salute! Peccato che, dopo i positivi esordi nell’antichità, la storia umana abbia portato a sviluppi diversi: la scienza si è progressivamente sviluppata separandosi sempre più dalla filosofia e dall’etica.

Il punto di vista dei visoni

Al Congresso di Lotta Continua nell’autunno 1976 avvenne uno scambio che nasce dal dibattito portato avanti dalle femministe, ma dice qualcosa anche sugli animali. Ciro della Spa Stura affermò che solo gli operai, «in quanto operai», esprimono il punto di vista del proletariato; la donna, «in quanto donna», può anche essere borghese e reazionaria. «Se una donna ponesse come obiettivo di avere tutte le pelliccia di visone», aggiunse, «sarebbe un obiettivo che riconoscerebbe nelle donne l’effettiva esigenzadi avere tutte la pelliccia di visone, ma non sarebbe un obiettivo consono agli obiettivi degli operai». Donatella Barazzetti replicò: «A proposito della questione delle pellicce, volevo dire che il punto di vista della sinistra, in questo caso il punto di vista rivoluzionario, ce l’hanno i visoni» (Cazzullo 2015).Quando lessi questo passo, molti anni fa, pensai con convinzione: «Già. Perché i visoni non dovrebbero avere un punto di vista?». Fu uno dei primi vagiti del mio risveglio antispecista, ovvero la convinzione che l’essere umano non detenga particolari diritti sulle altre specie animali e non possa pertanto violarne gli interessi.

Per un’informatica conviviale

Quali sono le regole e gli strumenti per comunicare fra le persone che partecipano? E quali per comunicare verso l’esterno, alle esperienze affini, al resto del mondo? Come si fa a informarsi, a selezionare informazioni, a orientarsi nel diluvio di notizie, a far circolare quelle che si ritengono opportune?

Le «Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione» (TIC), spesso indicate come nuove tecnologie, non sono affatto nuove, visto che se ne parla da decenni e ci abbiamo a che fare quotidianamente da tanto tempo. Con tecnologie intendo l’incarnazione concreta, materiale, tangibile di teorie e procedure che sono dei «modi di fare», «modi di costruire», ovvero le «tecniche». Un dispositivo elettronico portatile, ad esempio uno smartphone equipaggiato con un sistema operativo Android (parecchi miliardi di dispositivi nel mondo), è quindi un oggetto tecnologico, frutto di specifiche tecniche (produttive, organizzative); queste tecniche sono ispirate da specifiche ideologie, convinzioni, credenze. In questo senso «la tecnica non è e non può essere neutrale»: le sue concretizzazioni tecnologiche incorporano sempre visioni del mondo situate, parziali, definite storicamente, socialmente e psicologicamente. Inoltre tendono a far nascere ulteriori generazioni di tecnologie (e di umani che dicono di servirsene) che agiscono e re-agiscono in maniera poco consapevole, determinata in maniera preponderante dall’orientamento tecnico sottostante. Le macchine non sono tutte uguali: dipende da come vengono create al mondo, e perché, proprio come gli umani non sono tutti uguali, ma dipende da come vengono creati al mondo, educati, socializzati e perché.

Libertari in Russia

Tanta attenzione non sempre però corrisponde, purtroppo, a un reale approfondimento della conoscenza. Spesso ciò che si cerca è solo la conferma di propri antichi stereotipi e teorie, magari per miseri calcoli di tornaconto politico. E dispiace che questo accada anche in un paese, come l’Italia, che per quanto riguarda il campo culturale, poteva vantare una tradizione di slavistica tra le più qualificate al mondo, di cui furono esponenti, solo per citarne alcuni, studiosi del calibro di Ettore Lo Gatto e Angelo Maria Ripellino.

La terra e il collettivo, l’organizzazione economica zapatista

Tierra y libertad, questo il motto con cui Emiliano Zapata guidò l’esercito di liberazione del sud nella rivoluzione messicana all’inizio del secolo scorso. Una rivoluzione tanto radicale nei presupposti quanto effimera nei risultati, per la svilente riproduzione degli stessi meccanismi di potere anche dopo la destituzione del dittatore Porfirio Díaz. Sul finire dello stesso secolo compariva sulla scena mondiale l’Ejército Zapatista de Liberación Nacional che, riprendendo gli stessi valori, rompeva in realtà con tutte le rivoluzioni novecentesche fino a quel momento osservate.

Populismo e nazionalismo nella retorica patriottica di Vladimir Putin

La Russia di Vladimir Putin «non è una democrazia, ma un governo in nome del popolo e per il popolo. La base elettorale principale di Putin è il popolo. Tutto il suo potere proviene dall’appoggio del popolo», spiega Migranyan (in Ioffe 2018). La legittimità popolare in Russia non deriva, però, dalle elezioni. Dall’inizio della sua presidenza, Putin ha configurato una politica interna che non solo ha enfatizzato elementi di patriottismo, xenofobia e antioccidentalismo, ma ha anche costantemente spinto a una depoliticizzazione della società, facendo contemporaneamente ricorso a un linguaggio esplicitamente populista (Casula 2013). Poiché il concetto di populismo può essere volto in diverse direzioni, occorre chiedersi chi forma, nella pratica, il popolo che tanto importa al sistema russo in momenti topici della vita politica del paese. Nell’era Putin, il discorso ufficiale ha separato rigorosamente l’etnicità dall’identità nazionale e ha introdotto nella sua definizione di «russo» (rossijskij) una combinazione di simboli presovietici e sovietici. Le situazioni di tipo bellico implicano una dicotomizzazione populista dello spazio politico. Per Putin, è la politica a essere la continuazione della guerra, ricorrendo alla celebre inversione di Foucault (1980) dell’affermazione di Carl von Clausewitz.

Dal basso e per il basso. Le sfide di una giusta transizione ecologica

Il 2020 sarà ricordato come l’anno che ha sconvolto la vita di miliardi di persone a causa della pandemia di Covid-19. Con l’abitudine di considerare ciò che accade intorno a noi come «emergenza», si è posta molta enfasi su quella pandemica, senza considerarla in relazione a fenomeni più ampi. La crisi climatica che viviamo sembra essere passata in secondo piano, nonostante le acclarate relazioni che intercorrono tra essa e la diffusione di eventi pandemici, a partire dalla devastazione dell’ambiente per sfruttarne le risorse naturali, che facilita il passaggio di virus tra specie animali, compresa quella umana. Per di più, numerosi studi scientifici dimostrano come la prolungata esposizione all’inquinamento atmosferico, causato prevalentemente dai mezzi di trasporto e dalla combustione di carbone, petrolio e gas, aumenti le possibilità di contrarre forme più gravi di patologie cardiorespiratorie. Se ciò non bastasse, insieme alla pandemia è tornato l’incubo della guerra su scala globale, che rischia di essere l’ultimo chiodo sulla bara di una giusta transizione ecologica.

Un nuovo regime climatico. L’antropocene e noi

Siamo in un’epoca caratterizzata da rapide e inedite trasformazioni degli ambienti in cui viviamo. Il sintomo più evidente di ciò è il riscaldamento climatico, ma anche la pandemia da Sars Cov-2, di cui la rivista ha trattato nel n. 1, è da leggersi nel più ampio contesto della crisi ambientale oggi in corso (Vineis e Savarino 2021). Partiamo da un concetto fondamentale: come esseri umani siamo animali dell’eccedenza. Infatti «una delle cose che ci distinguono dagli animali non umani è che questi ultimi producono solo ed esclusivamente ciò di cui hanno bisogno; gli esseri umani producono molto di più. Siamo creature dell’eccesso, ed è questo a renderci insieme la più creativa e la più distruttiva di tutte le specie». (Graeber e Wengrow 2021). Il concetto di eccedenza ha generato altri concetti tipici della natura umana, quali quello di potere e di controllo. Chi controlla le scorte prodotte in eccesso? Chi ha più potere. Per quale motivo sono scoppiate e scoppiano molte guerre? Per il controllo delle scorte.

Non c’è libertà senza responsabilità

Politicamente parlando, le concezioni della libertà che si sono date nella storia sono fondamentalmente due: “la libertà negativa” e quella “positiva”, in parte sovrapponibili ai concetti di “libertà dei moderni” e “libertà degli antichi” e in parte coincidenti, rispettivamente, con la concezione democratica e quella liberale della libertà. Sebbene siano stati individuati decine di significati della parola libertà, quelli centrali sono proprio i due summenzionati, ai quali possono essere ricondotti molti altri.

Libertà o licenza?

“Nessuno libera nessuno, non ci si libera da soli, ci si libera insieme, in solidarietà”, diceva Paulo Freire. In questo tempo pandemico, che da ormai due anni stiamo attraversando, la parola libertà è tra quelle più inflazionate, declinata dalle varie parti a proprio uso e consumo. Questo perché, in fondo, ognuno è libero di pensare ciò che vuole della libertà: tutti dimentichi del fatto che la propria libertà diviene licenza laddove nega irresponsabilmente la libertà dell’altro-da-sè. La questione della libertà ci interroga da sempre sul nostro stare nel mondo e oggi, in particolare, la pandemia ci ha in qualche modo chiamati a rendere conto di questo. Le misure di contenimento del contagio, il tema dei vaccini, ma anche e sempre più la questione ambientale chiamano in causa la libertà individuale e collettiva e il nostro rapporto col mondo.

Genere e pandemia

Nel mondo risultano perlopiù le donne a pagare la crisi economica determinata dalla pandemia: in tutte le aree geografiche, indipendentemente dai livelli di reddito dei paesi di appartenenza, in termini percentuali le donne restano fortemente prevalenti tra i disoccupati e tra le persone inattive. I settori più colpiti si confermano infatti quelli del terziario povero e del lavoro domestico retribuito, in entrambi i casi a prevalente impiego di manodopera femminile.

Conversazioni

Tassare i ricchi. Uno scambio su capitale, debito e futuro

Moderatori: Entrambi sembrate pensare che il sistema economico e finanziario prevalente abbia fatto il suo corso e non possa durare ancora a lungo nella sua forma attuale. Vi chiedo di spiegare perché.

Thomas Piketty: Non sono sicuro che siamo alla vigilia di un collasso del sistema, almeno non da un punto di vista puramente economico. Molto dipende dalle reazioni politiche e dalla capacità delle élite di convincere il resto della popolazione che la situazione attuale è accettabile. Se esiste un efficace apparato di persuasione, non c’è alcun motivo per cui il sistema non debba continuare a esistere così com’è. Non credo che fattori strettamente economici possano precipitare la sua caduta.Karl Marx pensava che il calo del tasso di profitto avrebbe inevitabilmente portato alla caduta del sistema capitalistico. In un certo senso, sono più pessimista di Marx, perché anche in presenza di un tasso di rendimento del capitale stabile, diciamo intorno al 5% in media, e di una crescita costante, la ricchezza continuerebbe a concentrarsi e il tasso di accumulazione della ricchezza ereditata continuerebbe ad aumentare. Ma, di per sé, questo non significa che si verificherà un crollo economico. La mia tesi è quindi diversa da quella di Marx e anche da quella di David Graeber. L’esplosione del debito, in particolare di quello americano, è certamente in atto, come abbiamo osservato tutti, ma allo stesso tempo c’è un grande aumento di capitale, un aumento di gran lunga superiore a quello del debito totale. La creazione di ricchezza netta è quindi positiva, perché la crescita del capitale supera anche l’aumento del debito. Non dico che ciò sia necessariamente una buona cosa. Sto dicendo che non esiste una giustificazione puramente economica per sostenere che questo fenomeno comporti il collasso del sistema.

Gabriel Kuhn in dialogo con Matthew Wilson

Matthew Wilson (MW): Ci siamo incontrati per la prima volta circa quindici anni fa, in occasione di un seminario universitario per discutere della tua raccolta di opere di Gustav Landauer. Quindici anni prima un evento del genere sarebbe stato quasi inimmaginabile, ma a quel tempo sembrava del tutto naturale e normale; l’anarchismo, sembrava a molti di noi, aveva sostituito il marxismo nei movimenti sociali, ma anche, sempre più spesso, nel mondo accademico. Voglio esplorare con te lo stato attuale dell’anarchismo, ma prima di arrivare a questo, vorrei chiederti di riflettere su quel primo decennio di ciò che Graeber e Grubacic hanno chiamato «il secolo anarchico»: all’epoca, condividevi l’idea che l’anarchismo stesse rapidamente sostituendo il marxismo come ideologia dominante della sinistra? E, comunque ti sia sentito in quel momento, come vedi ora quel periodo?

Conversazione con elèuthera

La storia di elèuthera – che inizia alla metà degli anni Ottanta – è anche la storia di un gruppo libertario che passa da una militanza politica a una dimensione più culturale (tra virgolette). Che cosa ha determinato questo passaggio e quindi l’inizio delle attività della casa editrice?

Intanto va precisato che il gruppo era dichiaratamente anarchico e con una pratica di militanza quotidiana molto comune all’epoca (anni Sessanta e Settanta). Il progetto editoriale che prende le mosse nel 1986 per iniziativa di due membri di quel gruppo (per inciso, Bandiera Nera) nasce invece su altre basi: ad aprire i battenti è una casa editrice – se vogliamo usare questo termine un po’ pomposo – libertaria e non strettamente anarchica, a prescindere dalle granitiche convinzioni dei suoi fondatori. Non è una questione puramente terminologica, o di semplice cosmesi per apparire meno terrificanti agli occhi di un pubblico generico… Tutt’altro, è la consapevole scelta di aprirsi – da anarchici – a quanti, pur non condividendo una specifica ideologia, esprimono valori, metodi e visioni profondamente libertari che li rendono ottimi compagni di strada. E di strada da fare ce n’era e ce n’è tanta. A determinare questo passaggio dall’attività prevalentemente militante all’attività prevalentemente culturale (perché ovviamente i due elementi rimangono strettamente intrecciati) sono state le mutate circostanze storiche e culturali. Dopo un ventennio socialmente e politicamente molto attivo (e pienamente novecentesco, visto con il senno di poi), ci si era infatti ritrovati, volenti o nolenti, in un’epoca in cui le modalità dell’agire sociale e politico sin lì prevalenti e lo stesso immaginario su cui poggiavano avevano perso di significato. Erano diventate pura retorica. Liturgie consolatorie ma inefficaci. Bisognava quindi trovare altre modalità operative a partire da nuove riflessioni improntate all’oggi. Detto altrimenti, il Novecento era finito e il futuro (più nebuloso che radioso) era tutto da inventare.Conversazione con elèuthera. Ci siamo allora concentrati sul presente, ed elèuthera nasce qui – in questo territorio incerto che si crea nella transizione da un’epoca all’altra – per rispondere a un’esigenza che non si placa nei vari corsi e ricorsi storici, ovvero l’esigenza di esplorare un territorio poco conosciuto per tracciare le nuove strade che portano al mutamento sociale. Perché di questo si tratta: non sarà più la rivoluzione otto-novecentesca, ma l’urgenza di cambiare il mondo resta intatta. L’idea è dunque quella di mettere insieme i tanti stimoli che vanno emergendo sia nel milieu anarchico, che non coincide più con il movimento anarchico così come si è storicamente configurato, sia in quella vasta galassia libertaria, estremamente fluida e multiforme, che tuttavia è una fucina di riflessioni e sperimentazioni contemporanee. Ed è così che nel catalogo di elèuthera entrano a pieno titolo anche temi e autori non strettamente anarchici, riconducibili a quella poliedrica cultura libertaria internazionale che – pur con tutte le sue contraddizioni – produce un pensiero antiautoritario quanto mai attuale e fecondo.

Conversazione con Pino Cacucci

Ciao Pino, la mia prima curiosità è rivolta alla tua ultima pubblicazione, L’elbano errante, un romanzo storico ambientato nel ‘500 nel quale i temi del viaggio, della precarietà esistenziale e del senso di infinito appaiono predominanti. Ti sembra corretta questa sintetica interpretazione?E che cosa ti ha spinto ad ambientare il romanzo in questo secolo dopo esserti occupato del ‘900 sapendo coglierne aspetti differenti e, forse, contraddittori?

Non solo l’interpretazione mi sembra corretta, ma racchiude i sentimenti essenziali che spingono il protagonista del romanzo – che definirei sia storico che di avventure – a diventare «errante», continuamente alla ricerca di risposte a un’esistenza votata alla vendetta. Alla base di un’idea che ho coltivato per una decina d’anni – con lunghe ricerche e innumerevoli letture – c’era la voglia di narrare cosa sia stato il cosiddetto Rinascimento, un secolo di massacri e guerre interminabili, scontri sanguinosi con i Turchi che hanno compiuto veri genocidi e costretto alla schiavitù innumerevoli giovani donne sequestrate ovunque e, per contro, una civiltà cristiana che era in piena Inquisizione, con altrettante guerre tra cattolici e protestanti, con le persecuzioni di ugonotti, valdesi, eretici di ogni sorta, streghe da bruciare sul rogo, e così via… Forse è stata per me una sorta di istigazione, questo odierno uso della parola «rinascimento» sempre a sproposito: volevo raccontare cosa fu veramente quell’epoca.

Conversazione con Loriano Macchiavelli

Loriano Macchiavelli (Vergato, 12 marzo 1934) è uno scrittore, drammaturgo e sceneggiatore italiano, autore di pièces teatrali, racconti e romanzi polizieschi. Dal suo primo romanzo Le piste dell’attentato (1974) a oggi, ha pubblicato oltre quaranta titoli, tradotti anche all’estero. Molti suoi racconti hanno al centro le indagini di una fra le coppie investigative più originale del giallo italiano, ovvero quella composta da Sarti Antonio, un poliziotto credibile, onesto e tenace, ma non particolarmente dotato nell’arte delle indagini, e Rosas, extraparlamentare di sinistra, eterno studente universitario, una mente analitica degna dei polizieschi classici. Nel 1997 ha iniziato una collaborazione letteraria con Francesco Guccini, col quale ha scritto una decina di libri. I suoi romanzi più recenti sono Noi che gridammo al vento (Einaudi, 2016), Uno sterminio di stelle (Mondadori, 2017), Tempo da elfi (Giunti, 2017) con Francesco Guccini, Delitti senza castigo (Einaudi, 2019) e La stagione del pipistrello (Mondadori, 2022). Per saperne di più leggete questa intervista e consultate il suo sito www.loriano-macchiavelli.it.

Conversazione con Riccardo Gatti

Attualmente collabora in qualità di consulente SAR – Search and Rescue - come responsabile dei soccorsi a bordo della nave “Geo Barents”, di  Médecins sans Frontiéres, attiva nel Mediterraneo centrale.

Nel 2015 ha iniziato a lavorare con MSF nel mar Egeo come pilota di imbarcazioni di soccorso,

Nel 2016 è operativo nel Mediterraneo Centrale sulle navi della ONG spagnola Open Arms, inizialmente come comandante poi come capo missione ricoprendo contemporaneamente il ruolo di presidente di Open Arms Italia. Dal 2021, conclusa l’esperienza con Open Arms ha continuato a collaborare con diverse ONG nelle operazioni di soccorso nel Mediterraneo centrale.

Conversazione con Goffredo Fofi

Goffredo Fofi, nato a Gubbio nel 1937, è sicuramente uno dei principali punti di riferimento di una cultura libertaria oggi in Italia. Critico letterario e cinematografico, scrittore, animatore di riviste e di gruppi di azione, maestro elementare e operatore sociale, da oltre sessant’anni cammina in direzione «ostinata e contraria» rispetto alle varie forme che assume sistematicamente il dominio. Questa breve conversazione ci offre innumerevoli stimoli per migliorare lo sguardo libertario che questa rivista intende praticare e, soprattutto, ci incoraggia nella scelta che abbiamo intrapreso, per tenere sempre uniti pensiero e azione e per mettere a punto un pensiero antiautoritario e solidale, propositivo e positivo.

Conversazione con Paolo Cognetti

L’autore del grande successo Le otto montagne risponde alle nostre domande sul rapporto tra essere umano e ambiente e racconta della sua visione del mondo, tra letteratura, scelte esistenziali e impegno culturale. Nel 2021 sono usciti il documentario Sogni di grande nord, sulla base di un suo viaggio dalle Alpi all’Alaska in compagnia dell’amico illustratore e viaggiatore Nicola Magrin, e il suo ultimo romanzo per Einaudi, La felicità del lupo.

Internazionale

Cos'è l'eco-anarchismo?

«L’Umanità è la Natura che prende coscienza di se stessa».
Élisée Reclus (Clark and Martin 2013)

L’eco-anarchismo è la forma di ecologia politica che colloca il politico più profondamente nella storia e nella crisi della Terra. Ritiene che il nostro futuro e quello del pianeta dipendano dalla capacità di compiere il nostro destino come mezzo attraverso cui la Terra pensa e agisce per il bene comune di tutti gli esseri. Questa è la visione sviluppata dal geografo e filosofo francese del XIX secolo Jacques Élisée Reclus (1830-1905), il fondatore del moderno pensiero eco-anarchico (Clark e Martin, 2013). È stato il primo pensatore a concepire in modo dettagliato la storia della Terra come lotta per la libera fioritura dell’umanità e della natura e contro le forze di dominio che limitano tale fioritura. Questa è la visione che viene portata avanti oggi dalla tradizione eco-anarchica.
Il significato centrale dell’eco-anarchismo è evidente dall’etimologia del termine. Deriva dal greco antico oikos, che significa «famiglia» o «casa», e anarche, da ana-, che significa «senza», e arche, che significa vagamente «regola», «principio» o più precisamente «dominio». Inoltre, è una forma abbreviata di «anarchismo ecologico» e quindi presuppone un terzo termine, logos. Il logos di qualsiasi essere è la via e la verità di quell’essere, il suo modo di raggiungere il bene. L’eco-anarchismo rispetta quindi profondamente il logos dell’oikos, il suo ordine immanente e il suo autosviluppo, e cerca di difenderlo da ogni arche o forma di dominio.
Ma cos’è il nostro oikos? L’oikos è un tipo di comunità, in particolare quella che identifichiamo come la nostra casa. L’eco-anarchismo è quindi una forma di comunitarismo nel senso più forte del termine. Riconosce che siamo membri di comunità all’interno di comunità. I nostri oikoi comprendono la comunità intima primaria della famiglia e la piccola cerchia di amici stretti. Includono anche le nostre comunità locali e regionali, sia umane che più-che-umane. E comprendono, infine e soprattutto, l’oikos di tutti gli oikoi, la nostra casa globale, il nostro pianeta-casa, la Terra.
L’eco-anarchismo sostiene che dobbiamo iniziare con la massima urgenza a trasformarci in membri pienamente responsabili della Casa Terra. Tale vocazione è «eco-anarchismo» in quanto esprime un impegno ecologico primario a promuovere la fioritura della comunità terrestre e un impegno anarchico primario a difendere tale fioritura da tutte le forze distruttive che vorrebbero schiacciarla ed estinguerla.

John Dewey e David Graeber. Elementi di democrazia radicale nel pensiero pragmatista e anarchico

Quando si pensa all’idea di democrazia radicale, gli scritti di John Dewey non sono probabilmente il primo esempio che viene in mente. Il suo concetto di democrazia è stato invece spesso liquidato come «liberale» (Talisse 2007) o come un primo esempio di democrazia deliberativa (cfr. Bacon 2010). A fronte di queste nozioni, in questo articolo voglio esplorare la natura radicale della narrazione deweyana della democrazia. La mia tesi principale è che gli elementi radicali vengono in primo piano se analizziamo il concetto di democrazia di Dewey nel suo contesto storico. Questo può aiutarci a capire il suo concetto di democrazia radicale per quello che era: un intervento nel dibattito sul ruolo della democrazia per la sinistra. Partendo da questi presupposti, sviluppo e difendo la tesi che l’idea di democrazia di Dewey è radicale nella misura in cui è stata concepita contro una concezione marxista ortodossa della rivoluzione e della trasformazione sociale. L’articolo si conclude delineando come questo rifiuto del marxismo ortodosso avvicini Dewey a un resoconto anarchico della democrazia radicale, così come è stato recentemente formulato da David Graeber (2013), ed evidenziando i parallelismi tra i concetti di democrazia radicale di Dewey e di Graeber per quanto riguarda la priorità dei mezzi sui fini, il ruolo della deliberazione e la necessità di una riforma istituzionale.

Forme di libertà: il doppio potere nelle Fiji

Con il rinnovato interesse in Nord America per la costruzione di un doppio potere e la definizione di strategie per raggiungere questi obiettivi, è importante guardare a modalità esistenti in tutto il mondo di resistenza e costruzione del potere. In tutto il mondo, i popoli indigeni ed ex colonizzati hanno intrapreso la lotta per creare spazi autonomi o, come dice Arturo Escobar, per costruire «un mondo che comprende molti mondi» (Escobar 2012). Questa strategia è ben nota a chiunque segua gli sforzi degli zapatisti (EZLN), dell’Autoamministrazione della Siria del Nord (Rojava), del Bakur e, recentemente, del popolo Mapuche nella regione Wallmapu del Sud America. Queste lotte rinunciano all’obiettivo della creazione o del controllo dello Stato, dando vita invece forme di doppio potere all’interno degli Stati in cui sono collocate. Questo approccio si allinea ampiamente al programma politico del comunalismo sviluppato da Murray Bookchin, sebbene adattato e modificato per contesti specifici.È in questo quadro che tratto del popolo iTaukei (E-tow-kay) delle Fiji e alla sua lotta per l’autonomia dal governo figiano. Le Fiji hanno sperimentato la debolezza dello Stato attraverso vari golpe nel loro passato, ed è mia opinione che questa debolezza abbia al centro aspetti di doppio potere. Questo testo illustra alcune di queste caratteristiche e ne discute brevemente le origini e le conseguenze. Sostengo che questi esperimenti di doppio potere nelle Fiji ci mostrino l’importanza del controllo delle terre da parte dei comuni e della sottrazione di potere da parte degli organi di governo locali e municipali, e dimostrano come ciò possa contribuire alla debolezza dello Stato auspicata dal comunalismo. Inoltre, credo che se queste strutture siano «forme di libertà» latenti, spetta alle persone e alle organizzazioni dare loro un contenuto politico. L’esperienza fijiana offre anche un ammonimento: in assenza di una critica più ampia dei sistemi di gerarchia e dominio, la democrazia di base e il doppio potere possono facilmente diventare strumenti di un nazionalismo reazionario. Le Fiji sono state colonizzate per la prima volta dai britannici nel 1875 e fino al 1916 si sono affidate a servitori indigeni importati dall’India. Le Fiji ottennero infine l’indipendenza nel 1970. Come succede spesso in molti Paesi ex colonizzati, ci sono state tensioni tra i discendenti delle popolazioni indiane e i nativi iTaukei, che a volte sono sfociate nella violenza. Il timore cheil controllo indo-figiano potesse distruggere l’autonomia culturale degli iTaukei è stato identificato come uno dei fattori principali dei quattro colpi di stato che le Fiji hanno subito, guidati o favoriti dall’esercito dominato dagli iTaukei. Sebbene esuli dagli scopi di questo testo trattare le origini del razzismo in quest’area e gli altri fattori coinvolti nei colpi di stato, questa storia è adeguatamente riassunta in altre fonti, come ad esempio Race and Politics in Fiji di Robert Norton (2012) e The Fijian Colonial Experience di Timothy Macnaught (2016); entrambi questi testi sostengono che l’élite politica dei governi coloniali e poi sovrani abbia favorito questa divisione e alimentato la paura di non poter mantenere le proprie posizioni. Tuttavia, nonostante la storia coloniale e post-coloniale, gli iTaukei hanno sviluppato una forma indigena di democrazia diretta dal basso e di confederazione con sfumature ecologiche. Questo processo è stato facilitato da una serie di fattori storici e sociali. In tutte le Fiji, i villaggi hanno avuto una penetrazione limitata dell’economia del contante e del controllo statale, lasciando alle comunità ampia libertà di dirigere e decidere le proprie linee di sviluppo. Le questioni importanti vengono sollevate nel corso di una riunione mensile del villaggio chiamata bose va koro, durante la quale le persone partecipano alla pratica indigena del talanoa, o storytelling. La talanoa funziona come una sorta di connubio tra lavoro e gioco: le persone discutono gli avvenimenti del villaggio, espongono le loro lamentele, ridono, scherzano e riportano quanto discusso dalle varie assemblee locali, il tutto bevendo kava e fumando sigarette. In questo modo, la noia tipica delle riunioni viene alleviata con cura, umorismo e interesse gli uni per gli altri. Anche la vita sociale è informata dal concetto iTaukei di vivere vaka vanua, o «con la terra». Il termine vanua ha molteplici connotazioni: può significare semplicemente la terra stessa, oppure l’unità di terra, spirito e popolo. Implica uno stile di vita in armonia con la terra e con la propria comunità, anteponendo il benessere di entrambi al profitto personale (Parke 2014). Esistono diverse assemblee a cui gli abitanti del villaggio possono partecipare. Queste assemblee tematiche si occupano di questioni come criminalità e mediazione, igiene dell’acqua, salute e sicurezza, finanza e investimenti, sviluppo della comunità e sono anche gruppi di donne e giovani, gruppi ecclesiali e di assistenza agli anziani. Attraverso queste assemblee, vengono definiti e diretti vari aspetti della vita del villaggio. Le assemblee differiscono da villaggio a villaggio, in quanto ognuna di esse è creata e controllata all’interno del bose più grande del villaggio. I bose va koro sono stati codificati nel governo attraverso il Ministero degli Affari iTaukei. Queste riunioni dal basso si collegano a un sistema di riunioni distrettuali e provinciali, composte sia da capi ereditari che da funzionari eletti per decidere gli affari dei villaggi a livello regionale, provinciale e nazionale. In pratica è una confederazione di assemblee comunitarie.
A grandi linee, le Fiji sono suddivise in 14 yasana (province), ogni yasana contiene un numero variabile di tikina (distretti). Il koro, o villaggio, è l’unità amministrativa più piccola. Ognuna di queste unità ha un capo, o tui, che ne è responsabile: il Roko Tui per la provincia, il Buli per il distretto, vari capi locali e il Turaga Ni Koro (capo villaggio) a livello di villaggio (Parke 2014). Ciascuna di queste unità comunali ha un proprio consiglio, che si riunisce per occuparsi dei problemi locali e poi conferisce le problematiche al livello superiore. Questo livello successivo è guidato da una serie di regolamenti di villaggio, che variano da luogo a luogo. Inoltre, i capi villaggio e i capigruppo si incontrano ogni trimestre per confrontarsi sulle questioni distrettuali e per nominare i membri del consiglio provinciale che si tiene due volte l’anno (Rotuivaqali 2012). I consigli provinciali contribuiscono a coordinare le linee di sviluppo dei villaggi, dalle infrastrutture agli investimenti. Hanno inoltre la facoltà di creare e gestire società e/o cooperative pubblico-private per favorire lo sviluppo economico delle aree rurali e generare capitale controllato dagli iTaukei. Questo sistema, che nella sua forma attuale soffre di corruzione e di frode, potrebbe anche portare verso una struttura economica municipalizzata. Sebbene questi consigli più grandi siano controllati da élite politiche ereditarie, non è sempre stato così. Testimonianze storiche e antropologiche suggeriscono che l’ereditarietà di queste cariche e l’attribuzione di un così ampio controllo sulle assemblee siano il risultato del colonialismo britannico (Macnaught 2016). Prima di allora, i capi di queste assemblee venivano scelti dai loro stessi abitanti in base al valore in guerra, al servizio reso alla comunità o come compromesso tra le varie fazioni; il loro potere sul resto del villaggio era in molti casi trascurabile. Le confederazioni sono emerse in modo fluido, nascendo e scomparendo a seconda delle necessità. Il sistema provinciale era legato alla base e le riunioni di villaggio erano un metodo di governo indiretto da parte degli inglesi (Macnaught 2016).
Un altro aspetto importante di questa struttura è la comunitarizzazione dei diritti fondiari. Oltre l'80% della terra delle Fiji è di proprietà comunitaria di vari clan: è inalienabile e i proventi finanziari delle locazioni e di altri progetti di sviluppo sono distribuiti annualmente ai membri dei clan attraverso l’iTaukei Land Trust Board. Questo ha in gran parte frenato la penetrazione del capitalismo nei villaggi delle Fiji e ha impedito la loro proletarizzazione. Gli iTaukei possono partecipare al commercio come preferiscono e hanno a disposizione terre da coltivare e su cui vivere senza affitti o tasse. A questo punto è importante spiegare alcuni aspetti del contesto indo-figiano. Gli indo-figiani sono esclusi da questa comunalizzazione della terra e devono acquistare le piccole quantitàdi terra libera o affittarla dai clan iTaukei. Per questo motivo, gli indo-fijiani sono esclusi dall’accesso alla terra su base etnica e sono costretti a partecipare all’economia salariale. Questo fa sì che un gran numero di imprenditori e lavoratori siano di etnia indo-fijiana. Si è quindi sviluppata la percezione, alimentata e sostenuta prima dalgoverno coloniale britannico e poi dalle élite dei clan iTaukei che hanno preso il loro posto, che gli indo-figiani volessero espandersi, rubare terre e sopprimere lo stile di vita degli iTaukei (Norton 2012). La percezione che gli indo-fijiani avessero conquistato troppo potere politico e minacciato la «supremazia» degli iTaukei è stato il fattore che ha animato tutti e quattro i colpi di Stato nella storia delle Fiji. Tuttavia, a causa della limitata importanza del governo centrale in tutte le Fiji, questo è in gran parte un dramma che si svolge tra l’élite politica e culturale della capitale Suva. Sebbene ci siano stati disordini e uccisioni a Suva durante i colpi di stato, la loro portata è stata molto limitata rispetto ad altri episodi simili nel resto del mondo (Norton 2012). Inoltre, vi sono prove di solidarietà tra la comunità indo-fijana e la comunità iTaukei nella vita quotidiana. Un esempio storico importante risale al 1920, quando gli indo-fijiani proclamarono uno sciopero generale per ottenere salari pari a quelli degli europei, che fu brutalmente represso dal governo coloniale. Inizialmente gli iTaukei sostenevano i minatori, gli agricoltori e i braccianti indo-fijiani con cibo, alloggio e sostegno morale. In seguito, però, furono indirizzati dalle loro élite principali – su indicazione del governo coloniale – ad agire come crumiri (Norton 2012).Questo evento ha contribuito a catalizzare lo «sviluppo» del popolo iTaukei e, non a caso, della sua terra. In primo luogo i colonizzatori britannici e poi le élite iTaukei hanno spinto per portare gli iTaukei verso l’«individualizzazione», in particolare non rinnovando i contratti di affitto dei coltivatori di canna indo-fijiani per dover così lavorare la terra in prima persona (Macnaught 2016). L’operazione fu portata a termine, ma con disappunto della Colonial Sugar Refining Company (CSR); gli iTaukei coltivavano una quantità di canna da zucchero molto inferiore a quella degli indo-fijiani, ma la società non aveva altri gruppi da cui acquistare. Il piano di sviluppo fu presto abbandonato e il governo coloniale centralizzò l’affitto delle terre nel 1940. Questo esempio illustra come le tensioni tra i popoli iTaukei e Indo-Fijiani siano state alimentate dalle élite coloniali e culturali nel tentativo di conciliare la cultura comunitaria degli iTaukei con la spinta al dominio della terra e al profitto insita nel capitalismo. Nel suo libro Earth Democracy, Vandana Shiva descrive con acume come il conflitto etnico mascheri e compenetri il conflitto di classe: «Quando la globalizzazione minaccia i valori, le norme e le pratiche delle diverse culture, si verifica un contraccolpo culturale. Quando la risposta culturale non difende contemporaneamente la democrazia economica e la creazione di economie vive, finisce per assumere la forma di identità e culture negative» (Shiva 2016). Il conflitto tra questi due gruppi etnici nelle isole Fiji conferma il punto di vista di Shiva.
Sebbene il resoconto di cui sopra fornisca solo un abbozzo del complicato contesto storico fijano, possiamo comunque tirare le fila e derivarne delle conclusioni interessanti. La prima è la convinzione che le Fiji siano uno Stato-nazione instabile, pur rimanendo un arcipelago relativamente pacifico. Molti teorici hanno utilizzato le Fiji come caso di studio sulla debolezza dello Stato, tra cui l’attuale Procuratore Generale, Aiyaz Sayed-Khaiyum, nella sua tesi di Master sull’autonomia culturale degli iTaukei (Sayed-Khaiyum 2016). Sayed-Khaiyum indica il Ministero degli Affari iTaukei, l’iTaukei Land Trust Board e l’autonomia dei villaggi come ragioni principali della debolezza dello Stato, che secondo lui incoraggiano campanilismo e razzismo. Se da un lato possiamo certamente riconoscere che c’è del vero in questo, dall’altro possiamo utilizzare la lente dell’ecologica sociale per sottolineare che non dobbiamo accettare la debolezza dello Stato come un risultato negativo e che non è scontato che le forme di decentramento politico siano razziste o campanilistiche. L’ultimo colpo di Stato del 2006, guidato da Frank Bainimarama, è stato definito un «colpo di Stato per porre fine alla cultura del colpo di Stato». Eppure, come leader in carica del partito Fiji First, ha continuato a mantenere il potere dopo due cicli elettorali e ha lavorato per attuare riforme neoliberali volte a integrare maggiormente le Fiji nel mercato globale. Per questo motivo, ha preso provvedimenti per limitare l’autonomia culturale iTaukei, sciogliendo il Gran Consiglio dei Capi e gli statuti dei singoli villaggi, istituzioni di base ed élite dell’autonomia culturale iTaukei. C’è stata anche una spinta ad affittare la terra a entità aziendali per 99 anni, sovvertendo di fatto i diritti fondiari comunitari. In risposta, c’è stato un aumento del sentimento nazionalistico. Le ultime elezioni del 2018 hanno visto la contesa tra Fiji First e il Partito socialdemocratico (Sodelpa), quest’ultimo candidato con un programma di ripristino della supremazia iTaukei. Ciò rispecchia da vicino il fenomeno più ampio dell’aumento dei movimenti nazionalisti/fascisti in tutto il mondo in risposta alla globalizzazione neoliberista.
Questo ci riporta al centro della mia argomentazione, ovvero che la debolezza dello stato deriva effettivamente dall’autonomia culturale degli iTaukei, un risultato della nascente struttura a doppio potere incorporata nell’amministrazione coloniale. Porta con séla doppia faccia di un’eredità di dominio e di una possibile forma di libertà. C’è il potenziale per espandere questa autonomia culturale in un paradigma confederale che includa gli indo-fijiani e altre minoranze etniche, religiose e culturali dell’arcipelago delle Fiji in un modo che non distrugga la cultura iTaukei, né installi la sua supremazia. In effetti, essendo le Fiji al centro di flussi migratori sia melanesiani sia polinesiani, la popolazione delle Fiji ha una lunga storia di integrazione inclusiva, con una vasta diversità culturale che è stata omogeneizzata in «fijiano» solo con la colonizzazione. Tuttavia, quello attualmente in corso è un tentativo di integrare le Fiji nella modernità capitalistica promessa alle nazioni «in via di sviluppo», a costo di sacrificare l’autonomia culturale a un individualismo sterilizzato incapsulato nel quadro dello Stato-nazione liberale. Questa situazione sottolinea l’importanza della politica comunalista o confederalista democratica sostenuta da Murray Bookchin e Abdullah Öcalan. Nelle Fiji possiamo vedere la necessità di costruire un potere duale assumendo e democratizzando le istituzioni del governo locale, ma anche la necessità di una confederazione e di una cultura dell’inclusività per arginare il campanilismo. Anche in forma latente, la struttura a doppio potere della democrazia diretta di base combinata con il controllo comunitario della terra nelle Fiji determina uno stato indebolito sia un sistema alternativo in cui le persone possono investire il loro tempo e i loro sforzi. La sua importanza è evidenziata dalla contesa tra i due principali partiti politici delle Fiji; uno vuole disinnescare questo sistema per portare le Fiji nella modernità capitalista, l’altro per usarlo come strumento per affermare il dominio iTaukei e l’esclusione di altri gruppi. La falsa scelta che viene offerta alle Fiji è la stessa che si trova oggi in tutto il mondo: o il neoliberismo o il nazionalismo reazionario. Ma attraverso il quadro politico dell’ecologia sociale diventa possibile vedere come potremmo far crescere un nuovo mondo all’interno delle crepe del vecchio, nelle Fiji e altrove, coltivando «forme di libertà» locali e allo stesso tempo estirpando gerarchia e dominio.

Castigare, pacificare o decriminalizzare le «bande latine»? Esperienze in Spagna, Ecuador e El Salvador

L’approccio delle istituzioni, dei media e dell’opinione pubblica nei confronti delle «bande latine» ha un ruolo fondamentale per la comprensione, il percorso e la prospettiva di questi gruppi. Più si usa il pugno di ferro, più aumenta la clandestinità dei gruppi e più sono le possibilità che aumenti la conflittualità. Ma che alternative ci sono? In base ai casi di Spagna, El Salvador e Ecuador, questo articolo analizza le esperienze di approccio istituzionale al fenomeno delle bande basate sul binomio «criminalizzare versus regolare», e si propone di rispondere alla domanda: la decriminalizzazione è un paradigma che può essere utile per affrontare il fenomeno delle aggregazioni giovanili di strada, definite impropriamente bande?

La produzione di soggettività nel lavoro contemporaneo: bullshit jobs, lavoro immateriale e la corrosione del carattere

Molti degli studi realizzati negli ultimi decenni sul carattere del lavoro contemporaneo arrivano a  conclusioni simili, nonostante i diversi punti di vista: il lavoro oggi non sembra essere tanto un mezzo per oggettivarsi o per costruire un’identità personale, quanto un’attività spesso debilitante, che induce al consumo di merce e favorisce soggettività funzionali al sistema. Il necessario cambiamento storico che la situazione attuale richiede avrà invece bisogno di identità solide e di un “pensiero forte” in un mondo che si sostiene su processi ugualmente forti.

I beni comuni nel pensiero libertario

È in reazione al neoliberismo che all’inizio degli anni Ottanta prende piede il movimento dei beni comuni. Il suo principio? L’autorganizzazione decentralizzata delle comunità di vita e di lavoro. I suoi obiettivi? Da un lato riappropriarsi e preservare le risorse di fronte alle molteplici forme di privatizzazione e di rapina, dall’altro esercitare l’autogoverno attraverso l’elaborazione di regole comuni. Se è vero che quello dei beni comuni è un movimento eterogeneo, è altrettanto vero che i suoi princìpi ispiratori richiamano quelli che costituiscono l’ossatura principale dell’anarchismo. Malgrado le numerose teorie che a esso si richiamano, l’anarchismo poggia su alcuni princìpi che possono costituire un denominatore comune. Possiamo concepirli ogni volta in una duplice accezione: negativa e positiva. Il rifiuto dell’autorità coercitiva, incarnata dallo Stato o dal governo, rimanda alla libera associazione o alla federazione di individui e gruppi; il rifiuto del capitalismo e dello sfruttamento rimanda all’abolizione delle classi sociali attraverso la riorganizzazione della produzione; il rifiuto dell’alienazione conduce allo sviluppo dello spirito critico e antidogmatico, primo passo per spezzare la servitù volontaria.

Sul concetto di prefigurazione in ambito anarchico

Il concetto di politiche prefigurative non implica il tentativo di portare nel presente, di «concretizzare» direbbero alcuni, uno stato di cose definito e delineato, o semplicemente abbozzato e suggerito, di una o l’altra utopia, bensì di mettere in pratica il più possibile nel presente, qui ed ora, i valori in cui si basa l’utopia. E quindi, è in quanto dispositivo per illustrare e trasmettere questi valori che l’utopia può ispirare l’azione rivoluzionaria nel senso rinnovato del termine rivoluzione. Prendendo le distanze dalle utopie del passato, che descrivevano al millimetro un mondo da sogno, le utopie contemporanee prendono la forma di un’utopia che è pienamente cosciente di essere solo un incentivo per la lotta, e di offrire solo una mappa di navigazione vaga ed imprecisa sulla quale bisogna inventare le rotte e non seguirle. Utopie che possono addirittura formarsi durante un processo di lotta, senza per forza venire da rappresentazioni preformate, come segnala Saul Newman.

Radici

Errico Malatesta

Parlare di Malatesta oggi suscita in alcuni persino irritazione. Perché parlare sempre dei «leader» e non dello stuolo di anonimi compagni? Perché, nell’era dei droni e dell’intelligenza artificiale, leggere ancora gli scritti di un autore nato nel regno borbonico? Non è ora di andare oltre Malatesta e svecchiare finalmente l’anarchismo? Un ovvio motivo per parlare di lui è che i più giovani possono non conoscerlo. A loro beneficio diciamo che la militanza di Malatesta ha abbracciato i primi sessant’anni di vita del movimento anarchico, dal congresso di St-Imier del 1872 ai prodromi della rivoluzione spagnola. Pur avendo vissuto la maggior parte della vita adulta all’estero, soprattutto a Londra, è stato protagonista dei momenti di più intenso scontro sociale in Italia, dai moti del pane del 1898 alla «settimana rossa» del 1914, al «biennio rosso» del 1919-20. È autore di alcuni dei più grandi «best-seller» della letteratura anarchica mondiale (Fra contadini, L’anarchia, Al caffè) e ha diretto alcuni fra i più importanti periodici anarchici in lingua italiana («L’Agitazione», «Volontà», «Umanità Nova», «Pensiero e Volontà»). Detto, questo, veniamo alle possibili lamentele di cui sopra. Ebbene, governo e proprietà privata dei mezzi di produzione – le massime incarnazioni dei due modi in cui si possono opprimere gli uomini, la forza brutale e il controllo dei mezzi di sussistenza – sono altrettanto vive nell’era dei droni quanto lo erano in quella dei Borboni. Da questo punto di vista, ahimè, non c’è niente di nuovo sotto il sole. E l’aspirazione ad andare oltre Malatesta è lodevole, come lo è quella ad andare oltre Darwin in biologia o Copernico in astronomia, ma bisogna essere in grado di farlo, altrimenti si rischia solo di scoprire l’acqua calda o, peggio, di uscire dal solco dell’anarchismo.
A mio avviso, parte della grandezza e dell’immutata rilevanza di Malatesta consiste proprio nell’aver tracciato quel solco, cioè nell’aver chiarito meglio di chiunque altro i tratti essenziali, cioè necessari e sufficienti, che definiscono l’anarchismo (al singolare). Nell’opuscolo L’anarchia Malatesta fornisce una definizione che è tanto concisa e apparentemente ovvia quanto è profonda:

Ursula Le Guin

Ursula Le Guin nacque il 21 ottobre 1929 a Berkley, in California, da Alfred L. Kroeber, noto antropologo, e Theodora Kroeber, autrice del bestseller Ishi in Two Worlds: A Biography of The Last Wild Indian in North America (1961). La vivacità intellettuale del suo contesto di crescita, punto d’incontro e di dialogo di scienziati, scrittori e nativi della California, alimentò significativamente il suo interesse verso le alterità culturali. In effetti, dopo gli studi in letteratura rinascimentale francese e italiana presso il Radcliffe College e l’ottenimento di un «Master of Arts» nella medesima disciplina presso la Columbia University (1952), la scrittrice diede vita a una produzione letteraria caratterizzata da una notevole versatilità, dove la spinta alla scoperta delle culture aliene e delle differenti società potrebbe essere individuata come il fil rouge complessivo.
In particolare, se la parte più ampia del corpus letterario dell’autrice, a partire dal suo stesso racconto d’esordio April in Paris in «Fantastic Science Fiction» (1962), è ascrivibile al genere fantascientifico, è altresì vero che Le Guin scrisse anche un centinaio di storie brevi, oltre che dodici volumi di poesia e cinque traduzioni, tra cui Tao Te Cjing: A Book about the Way and the Power of the Way di Lao Tzu (1997); anche i lavori di traduzione sembrano incarnare, in questo senso, il tentativo di gettare ponti, attraverso la parola scritta, tra lingue e culture differenti.
La precisa volontà di Le Guin di costruire un’eclettica identità di scrittrice, esulando da rigide etichette definitorie, sembra inoltre trovare una certa corrispondenza nello sviluppo libero e arborescente della sua stessa visione politica, che non appare in definitiva in alcun modo asservita a una specifica connotazione ideologica, ma risulta anzi profondamente originale, arricchita da fonti eterogenee.
In questo senso è interessante come, prescindendo dal radicato ateismo che caratterizzò il suo contesto famigliare, Le Guin fondò la propria scrittura sui pilastri taoisti dell’equilibrio e dell’armonia universale. La filosofia taoista, intrecciandosi allo spirito marcatamente anarchico e libertario dell’autrice, la portò a esprimere nelle sue opere una visione antropologica appassionatamente contraria a ogni forma di potere: nel suo pensiero, l’essere umano non poteva più assurgere al ruolo di conquistatore, ma si inseriva armonicamente nell’equilibrio universale, tentando forme di contatto con le culture a lui aliene. Seguendo l’interpretazione in chiave libertaria della filosofia del Tao, i contorni di questa prospettiva anarchica sarebbero, in questo senso, del tutto coerenti rispetto ai princìpi della pratica taoista, secondo la quale ogni tipo di legge repressiva si configura come una minaccia all’ordine e all’armonia naturale. Di qui la necessità di una vigilanza continua per impedire a uomini astuti di approfittare del sistema di governo per instaurare il proprio dominio. Inoltre, sulla base della credenza taoista per la quale gli esseri umani sono appunto naturalmente chiamati a vivere tra loro in equilibrio e armonia, Le Guin si fece promotrice di una visione antropologica dalla connotazione spiccatamente anti-gerarchica, per la quale gli individui sono (o dovrebbero essere) tra loro eguali, liberi e dotati di pari potere.
Già nei suoi primi romanzi, come Rocannon’s World e Planet of Exile (1966) – pubblicati negli anni appena successivi al matrimonio con lo storico Charles Le Guin, con il quale si trasferì a Portland ed ebbe tre figli – emerge la capacità di Le Guin di contaminare il genere fantascientifico, in quel momento da lei ritenuto ancora imperniato sulla «tradizione dell’uomo bianco che conquista l’universo», di temi rispondenti alla sua sensibilità: il «viaggio archetipico» di un protagonista che ricerca la propria identità attraverso un duplice viaggio (interiore ed esteriore), il pacifismo, la connessione identitaria con l’ambiente naturale, la riconciliazione degli opposti in un quadro di equilibrio universale.
La visione leguiniana si rese inoltre permeabile rispetto alla stagione politica delle rivendicazioni rivoluzionarie sessantottine, specialmente in relazione al tema delle disuguaglianze di genere: uno dei suoi più celebri romanzi, The Left Hand of Darkness (1969), si propose in particolare, ritraendo una società fatta di androgini, e dunque scevra delle tradizionali distinzioni sessuali, di effettuare un esperimento immaginativo volto a esplorare la dimensione dei ruoli di genere senza irrigidirsi nella visione radicalmente dualistica perpetuata dai canoni occidentali. Dirette conseguenze politiche di questa immaginaria «reiscrizione della natura» erano l’assenza di potere costituito, delle guerre, dello sfruttamento naturale e della concezione della sessualità come fattore sociale permanente.
La riflessione libertaria di Le Guin culminò infine ritraendo, con The Dispossessed (1974), il popolo anarchico di Anarres, che spingeva l’esigenza di difesa della libertà individuale fino allo sradicamento di ogni potere gerarchico, compresa la religione organizzata e la proprietà privata: gli si contrapponeva il popolo di Urras, improntato ai principi del capitalismo e dell’individualismo. La visione antidogmatica di Le Guin la spinse tuttavia a consegnare, con questo romanzo, un’utopia «ambigua» che, lungi dall’incarnare il tradizionale schema di incorruttibile equilibrio e armonia, mostrava punti di debolezza: i due paradigmi politici estremi di Anarres e Urras, dietro la maschera delle opposte ideologie, manifestavano infatti una medesima difficoltà a gestire il concetto di libertà, configurandosi, in ultima analisi, come riflessi delle reciproche incongruenze.
In The Dispossessed Le Guin sembra consegnare ai lettori un monito rispetto alle conseguenze che derivano dal chiudersi all’interno di paradigmi definitori e limitanti, dall’irrigidirsi in definizioni spinte fino all’estremo: pur nutrendo, anzi, un’evidente fascinazione e interesse nei confronti dell’anarchismo, dipinse Anarres come una società che radicalizza la propria adesione a questo pensiero politico fino a cristallizzarlo in una gabbia ideologica, dando vita a un clima oppressivo che soffoca, come anche avviene a Urras, la possibilità di sviluppare la lucidità e l’imparzialità necessarie per giudicare le proprie mancanze. Entrambi i pianeti, di conseguenza, non possono che da ultimo mancare la sfida di riconciliazione degli opposti che l’autrice, in accordo con la pratica taoista, individua come obiettivo cruciale del percorso evolutivo tanto dell’anima umana, quanto dell’ordine universale del cosmo nel suo complesso.
L’enfasi posta dall’autrice nell’evidenziare le fragilità dimostrate da entrambi i pianeti nel loro sforzo di dare costruzione al sogno sociale sul quale pure innestano le loro basi, potrebbe rendere forse opportuno non considerare The Dispossessed un’utopia o una distopia – la stessa Le Guin, non a caso, definì quest’opera come «un’utopia ambigua» –, ma come un esempio delle nuove forme di discorso utopistico emerse negli anni ‘70 del XX secolo con il nome di critical utopias: disegni utopistici non esenti da incongruenze e problemi, talvolta anche non risolvibili, che per loro stessa irrisolutezza permettono al lettore di sviluppare riflessioni critiche.
In effetti, con la descrizione di Anarres, Le Guin ha evitato di proporre ai lettori la soluzione di un mondo anarchico perfettamente compiuto, incontestabile e privo di lacune, che chiuda le porte all’immaginazione di alternative possibili. Al contrario, ha fatto propria una visione profondamente «aperta», per sua struttura rivedibile e correggibile, dunque intrinsecamente libertaria e non dogmatica, quasi a voler consegnare un «messaggio in bottiglia» per le generazioni future.
Nell’ideare un mondo anarchico dalle incongruenze così chiaramente evidenti, l’autrice sembra anzi abbracciare il problema critico della revisione dell’anarchismo posto per la prima volta da Camillo Berneri, che senza indugio negò che la società anarchica potesse essere «la società dell’armonia assoluta», e optò piuttosto per una «società della tolleranza».
La spinta libertaria e antidogmatica ha costituito la linfa inesauribile della produzione letteraria di Le Guin, che morì nel 2018 a Portland.

Albert Camus

Camus nasce nel 1913 ad Algeri, da una famiglia di pied-noirs (i Francesi d’Algeria) per nulla benestante, quando l’Algeria è una colonia francese; lo sarà fino all’ottenimento dell’indipendenza, dopo una cruenta guerra di liberazione di otto anni, nel 1962. Ma Camus muore due anni prima, prematuramente, in un incidente stradale, in un periodo in cui sta scrivendo il romanzo autobiografico Il primo uomo, rimasto incompiuto ed edito recentemente da Bompiani. Figlio di operai, orfano giovanissimo di padre, con una madre analfabeta, riesce a studiare solo grazie all’aiuto del suo maestro elementare: diventerà uno dei maggiori intellettuali libertari del Novecento. Coscienza critica dell’Occidente, intellettuale engagé, attivo politicamente ma non incorporato nella politica istituzionale, parteggia per i repubblicani nella guerra civile spagnola del 1936-1939, partecipa attivamente alla Resistenza francese ed è caporedattore del quotidiano «Combat», organo clandestino della Resistenza stessa, collabora con diverse testate della sinistra libertaria. È critico nei confronti dell’Unione Sovietica dominata dallo stalinismo che ritiene lesivo della libertà e dei diritti più basilari. Autore di romanzi, Lo straniero (1942), La peste (1947), col quale ottiene un vasto riconoscimento di pubblico, La caduta (1956); di opere teatrali tra le quali Il malinteso (1944), Caligola (1945), Lo stato d’assedio (1948), I giusti (1949); di saggi come Il mito di Sisifo (1942), L’uomo in rivolta (1951), Riflessioni sulla ghigliottina (1957); nel 1957 riceve il premio Nobel per la letteratura per avere saputo esprimere come scrittore «i problemi che oggi si impongono alla coscienza umana». È un esistenzialista, in quanto la sua riflessione si concentra sul senso dell’esistenza umana nel mondo, in un’Europa figlia della grande crisi 1915-1945, in cui le due guerra mondiali e i totalitarismi hanno decretato la fine traumatica delle grandi narrazioni ottocentesche: l’idealismo e il positivismo. In Camus troviamo riferimenti ad autori e filosofi che via via si sono interrogati sulle problematicità dell’esistenza umana tra cui Dostoevskij, Kafka, Tolstoj, Joyce, Proust, Stendhal ma anche Schopenhauer, Nietzsche, Pascal e Spinoza.

Marie Isidorovna Goldsmith

«Ciò di cui ha bisogno oggi il movimento anarchico non sono certo nuove formule organizzative, bensì un programma di lavoro concreto, ben definito, da intraprendere fin da subito [… ] Perciò, le iniziative e le idee non devono essere soffocate, ma invece si deve incoraggiare uno scambio vitale di tutti i punti di vista».Così scriveva Marie Goldsmith nella rivista anarchica Plus Loin nell’aprile del 1928. Queste parole rivelano molto esplicitamente due caratteristiche peculiari di questa anarchica, purtroppo poco conosciuta ancor oggi, che ne definiscono la sua postura: l’essere una scienziata e al contempo essere un’anarchica. Nata nel 1873 (la data esatta non è sicura e neanche il luogo: Zurigo o San Pietroburgo?), figlia di un giurista e attivista populista rivoluzionario russo, Isidoro, e di Sof’ja Androsov, biologa e scienziata, morirà suicida l’11 gennaio del 1933 a Parigi. Nel 1874 la famiglia Goldsmith vive a San Pietroburgo e Marie sperimenta da bambina il lungo e inflessibile braccio violento dello Stato zarista che perseguita con l’esilio e i trasferimenti coatti i suoi genitori di città in città in quanto rivoluzionari, populisti e socialisti. Nel giugno del 1884 i Goldsmith fuggono dalla Russia attraverso la Finlandia e poi la Svizzera, prima di stabilirsi definitivamente in Francia a Parigi.Marie si laurea in biologia alla Sorbona nel 1894 e diviene stretta collaboratrice del noto biologo e zoologo evoluzionista Yves Delage (1854- 1920) specializzandosi, nel 1915, con un dottorato sulle reazioni psicologiche e psichiche tra i pesci. Scrivono in collaborazione alcuni libri e molti articoli di carattere squisitamente scientifico entrando in contatto con l’ambiente evoluzionista internazionale. Importanti studi e ricerche vengono scritti da Goldsmith sulla partenogenesi naturale e sperimentale (1913). Dal 1905 diviene la segretaria della prestigiosa rivista scientifica L’année biologique. Nel frattempo sviluppa la sua vocazione libertaria e poi anarchica entrando in contatto con gli ambienti rivoluzionari francesi ma anche europei. In particolare diviene corrispondente assidua con Pëtr Kropotkin e sviluppa una forte amicizia testimoniata dalle innumerevoli lettere intercorse tra i due. La sua posizione all’interno del consesso universitario e scientifico non è facile e, a causa del suo rapporto sodale con Delage e delle sue idee anarchiche, del suo status di esule e dell’essere donna, subisce invidie e inimicizie all’interno del suo stesso dipartimento. Alla morte del suo mentore la sua situazione lavorativa si precarizza ulteriormente. La lunga e complessa malattia della madre, alla quale la lega un rapporto profondo e simbiotico, complica ulteriormente la sua situazione, perché Marie consuma la sua esistenza nell’opera di assistenza della madre così gravemente ammalata. Rifiuta diverse offerte di lavoro (tra le quali anche da due istituti prestigiosi degli Stati Uniti come il Rockefeller Institute e la Carnegie Institution) sempre per poter stare vicina alla madre. Contemporaneamente al suo travaglio accademico ed esistenziale, Marie abbraccia sempre più profondamente gli ideali anarchici, alimentando il suo desiderio di contribuire a sconfiggere i soprusi e le disuguaglianze, prodotte dalla società autoritaria e dalle istituzioni così marcatamente classiste, sessiste e ingiuste, soprattutto nei confronti delle categorie più oppresse e quindi anche delle donne. Fin dal 1891 si era associata a un gruppo francese di carattere spiccatamente rivoluzionario e socialista, denominato Étudiants Socialistes Révolutionnaires Internationalistes spingendolo via via verso posizioni più radicali e anarchiche. Il gruppo si scioglie nel 1900 ma Marie continua la sua attività parallela di studiosa e ricercatrice e di militante anarchica, scrivendo su numerosi periodici anarchici francesi e di altre nazioni europee. Tra i periodici con cui collabora va ricordato Les Temps Nouveaux, fondato da Jean Grave, che raccoglie le firme più autorevoli dell’anarchismo internazionale e poi, entrando come redattrice, la rivista Plus Loin, firmandosi con diversi pseudonimi. Infine collabora al periodico americano in lingua yiddish, con sede a New York, Fraye Arbeter Shtime e con il giornale anarchico russo, con sede a Chicago, Dielo Truda. Marie Goldsmith diviene un’importante figura dell’anarchismo internazionale di questi anni, giovandosi di un grande rispetto e godendo di grande considerazione tra i suoi compagni.
Si occuperà molto di questioni organizzative, entrando nel dibattito molto acceso in quegli anni attorno alle note vicende delle posizioni piattaformiste, con posizioni critiche verso ogni forma di organizzazione che in qualche modo possa attenuare il profondo e inevitabile rispetto che l’idea anarchica nutre nei confronti della libertà individuale. La sua attività non passa inosservata alla polizia, francese e russa, che la segue e la controlla con i mezzi investigativi a sua disposizione. Collabora e intrattiene rapporti non solo all’interno del movimento anarchico ma anche con l’area socialista rivoluzionaria e con gli esuli russi soprattutto a Parigi, Londra e Ginevra. Intrattiene una fitta rete di corrispondenze che ne rivelano la dimensione internazionale sia militante che scientifica: Pëtr Kropotkin, James Guillaume, Max Nettlau, Jean Grave, Vera Figner, Varlaam Cerkezov, molti altri russi, Christian Cornelissen, Emma Goldman, Sébastien Faure, Paul Reclus, Rudolf Rocker, e molti altri ancora. Oltre a queste corrispondenze Marie mantiene rapporti stretti e costanti con anarchici ebrei sia in Francia che all’estero. Il padre era infatti di origine ebraica ma laico però nella tradizione e nella vita. Marie sente sempre forte però il legame ideale con l’ebraismo laico e libertario e a testimoniarlo possiamo citare la sua collaborazione proficua e intensa con la stampa di lingua yiddish. Le sue concezioni politiche hanno influenzato la sua ricerca scientifica facendola diventare un’attenta sostenitrice delle teorie kropotkiniane sul mutuo appoggio e una decisa avversaria delle interpretazioni più conservatrici e autoritarie delle teorie darwiniane rivalutando alcuni aspetti importanti delle concezioni lamarckiane. I suoi studi sulle teorie dell’evoluzione mirano da un lato a supportare l’idea della solidarietà, della collaborazione, del mutuo appoggio come uno dei fattori principali del processo evolutivo e delle relazioni sociali, dall’altro a confutare le teorie teologiche sull’origine della vita e dell’universo. Quindi, confutando le volgarizzazioni del pensiero darwiniano fatte da Herbert Spencer e, soprattutto, da Thomas Henry Huxley, Goldsmith realizza due obiettivi: riconsiderare dal punto di vista scientifico le storture della volgarizzazione del pensiero di Darwin e, soprattutto, fornire alle idee libertarie strumenti di carattere scientifico per giustificare la positività dell’ideale libertario.Dal punto di vista più strettamente militante Marie riveste una certa fiducia nel sindacalismo rivoluzionario che secondo il suo punto di vista era intrinsecamente e necessariamente anarchico. Sindacalismo e anarchismo sarebbero accumunati da una avversione contro lo Stato e il Potere e contro il capitalismo. Non sfugge a Marie però una certa differenza tra le due espressioni del movimento rivoluzionario dell’epoca.

Luce Fabbri

Ancorata alla radice socialista dell’anarchismo malatestiano e del padre Luigi, ma al contempo spinta a svilupparlo e arricchirlo, Luce Fabbri è certamente da considerarsi una tra le figure intellettuali più interessanti e significative dell’anarchismo italiano e internazionale del Novecento.Testimone degli eventi e delle tragedie che attraversano tutto il XX secolo, Fabbri ha affrontato nel corso della sua esistenza alcuni tra i nodi centrali delle vicende storiche della realtà contemporanea. In lei ha convissuto sia una solida cultura politica, storica e letteraria, che, ad esempio, le permise nel 1949 di accedere in Uruguay all’insegnamento universitario, sia una massima apertura mentale verso i problemi del presente e del futuro. Nonostante ciò il suo pensiero, seppur accolto in numerose riviste del movimento, non venne compreso e dibattuto quanto avrebbe meritato e le sue idee passarono sostanzialmente inosservate. Anche chi, nel movimento anarchico italiano dalla fine degli anni Sessanta, riprese e sviluppò per esempio il tema della tecnoburocrazia, mettendo in evidenza pensatori come Luis Mercier Vega o riscoprendo personaggi come Bruno Rizzi, non si accorse delle pagine scritte da Luce Fabbri sullo stesso tema. Luce Fabbri nasce a Roma il 25 luglio 1908, figlia di Luigi Fabbri e di Bianca Sbriccioli. Nell’ottobre del 1910 nasce a Bologna, dove la famiglia si era nel frattempo trasferita, il fratello Vero. Nell’autunno del 1926, dopo la definitiva affermazione del fascismo in seguito alle leggi «fascistissime» del 1925, il padre Luigi è costretto ad espatriare clandestinamente attraverso la frontiera svizzera, recandosi in Francia dove lo raggiungerà nell’anno successivo la moglie Bianca.Luce rimane da sola a Bologna per terminare gli studi universitari, ospite in casa di un amico di famiglia, il socialista Enrico Bassi. Due mesi dopo la laurea, ottenuta nel 1928, anche Luce decide di lasciare clandestinamente l’Italia, raggiungendo la famiglia a Parigi i primi di gennaio del 1929. Nel marzo dello stesso anno il padre Luigi è nuovamente costretto ad attraversare clandestinamente la frontiera con il Belgio, sotto la minaccia di arresto da parte della polizia francese. In aprile Luce e la madre lo raggiungono a Bruxelles e il mese successivo la famiglia parte dal porto di Anversa per l’Uruguay. Fin dall’inizio del suo arrivo nel nuovo paese Luce si impegna attivamente nel movimento anarchico uruguayano, scrivendo articoli e libri, tenendo conferenze e impegnandosi in svariati ambiti. I primi anni a Montevideo sono difficili per problemi economici e di inserimento, mentre la nostalgia dell’Italia si fa sentire in modo acuto. Per aiutare la famiglia, Luce impartisce lezioni private di italiano e greco, e partecipa alle commissioni annuali d’esame per l’italiano, che era materia curricolare nelle scuole secondarie superiori dell’Uruguay, ottenendo nel 1933 l’incarico di professoressa di storia in molte scuole, che svolgerà fino al 1970. Durante la prima estate nel nuovo paese, per ristabilirsi nella salute compromessa dal lungo viaggio, Luce trascorre un periodo di vacanza sulle montagne di Cordoba, in Argentina, ospite di Diego Abad de Santillán. È l’inizio di una lunga amicizia che durerà tutta la vita. Nel frattempo Luigi Fabbri avvia una nuova importante iniziativa editoriale, la pubblicazione della rivista «Studi Sociali», il cui primo numero esce nel marzo del 1930. Alla redazione collaborano Ugo Fedeli e Torquato Gobbi e Luce, che scrive alcuni articoli firmati con lo pseudonimo Lucia Ferrari.Il 6 settembre 1930, con il colpo di stato del generale Uriburu in Argentina, si scatena una feroce repressione contro gli anarchici. Quelli che riescono a fuggire riparano a Montevideo, dove vanno a ingrossare la comunità degli esiliati. Tra i profughi c’è anche Ermacora Cressatti, un muratore anarchico di origini friulane, di cui ben presto Luce si innamora e che diventa suo marito nel 1933. Alcuni anni dopo nasce la figlia Luisa.

Lev Tolstoj

Tolstoj appuntava nei suoi diari: «Ho letto Kropotkin sul comunismo. Ben scritto e buoni concetti, ma stupefacente per l’intimacontraddizione: per far cessare la violenza di alcuni uomini sugli altri, impiegare la violenza. Il punto è questo: come far sì che gli uomini cessino di essere egoisti e violenti? Secondo il loro programma, per il raggiungimento di quest’obiettivo occorre impiegare nuova violenza». Ecco come Lev Tolstoj il grande scrittore russo, il famoso autore di grandi e intramontabili opere narrative, interrogava l’anarchismo. Eppure, nonostante le critiche forti e risolute che muoveva all’idea anarchica, Tolstoj era, ed è, considerato un pensatore sostanzialmente «anarchico». Sul senso del suo essere anarchico critici letterari, storici o politici, hanno dibattuto a lungo. Una sicura sensibilità libertaria del grande scrittore russo, pur avendo avuto esplicita manifestazione a un certo punto della sua vita, può essere rintracciata, in nuce, già nei suoi duepiù grandi e famosi romanzi: Guerra e pace e Anna Karenina. Anarchico dunque, ma di un anarchismo specifico, particolare, diverso sicuramente, da quello degli altri pensatori «classici» di questa idea. Infatti, se la critica allo stato e al potere, alla concezione «sviluppista» dell’economia, alla proprietà privata, all’educazione autoritaria e alla scuola istituzionalizzata, alla funzione repressiva della religione ufficiale, al militarismo e a ogni forma di esercito, alla nozione di patria e di patriottismo, al socialismo statalista, all’uso antropocentrico della natura e degli animali, se tutto questo (e altro ancora) può essere riconosciuto come patrimonio comune dell’anarchismo, per altre caratteristiche il suo pensiero si differenzia, in modo anche radicale, da quello tradizionalmente considerato come libertario. Questo aspetto, lungi dal rappresentare però un limite (anche se può esserlo), costituisce in realtà un utile e quanto mai significativo contributo a un pensiero anarchico non rigidamente rinchiuso in presunte inossidabili certezze. Nel 1900 a firma «Studenti Socialisti Rivoluzionari Internazionalisti di Parigi» appare un opuscolo dal significativo titolo: Tolstoismo e anarchismo, in cui viene affrontata appunto la questione relativa al possibile rapporto tra il pensiero anarchico e quello che ormai viene chiamato tolstoismo. Così conclude: «In riassunto, noi pensiamo che la propaganda di Tolstoj ha un’utilità teorica incontestabile, soprattutto quando essa attacca con vigore il militarismo e lo Stato. Ma essa presenta anche, a nostro avviso, dei grandi pericoli […] Tolstoj, il quale critica con tanta asprezza e vigore i pregiudizi e le istituzioni, fa una propaganda che devia dal socialismo e dalla rivoluzione. Egli è forse un eccellente cristiano della chiesa primitiva, è certamente un grande scrittore, è un pensatore, ma non è, in nessun caso, un anarchico comunista e rivoluzionario». Sostanzialmente sulla stessa lunghezza d’onda si troveranno, seppur con accenti diversi e sfumature non omogenee, molti altri pensatori e militanti anarchici italiani come Pietro Gori, Luigi Fabbri, Luigi Galleani, Errico Malatesta, Camillo Berneri e molti altri.Un approccio differente lo troviamo in altri militanti anarchici come, ad esempio, Pëtr Kropotkin il quale, nel 1905, nell’opera Ideals and Realities in Russian Literature, dedicando un capitolo proprio a Tolstoj, esprimeva le sue opinioni sul Tolstoj letterato ma anche sulla dimensione più complessiva del suo pensiero. La prima osservazione, di estrema attualità, la fa a proposito di due opere giovanili di Tolstoj, Infanzia e Fanciullezza, in cui coglie bene la profondità delle intuizioni tolstoiane rispetto ai temi educativi. Kropotkin mette in risalto come nessuno, fino ad allora, avesse così ben descritto la vita dei ragazzi dall’interno, cioè dal loro punto di vista. Infatti Tolstoj dimostra molto bene il valore dell’empatia nella relazione educativa e lo fa in modo tale che il lettore è costretto a giudicare gli adulti dallo stesso punto di vista del ragazzo. In effetti, a partire proprio da questi iniziali capolavori letterari, Tolstoj svilupperà con anticipo, secondo solo a William Godwin, quelle che saranno destinate a diventare le idee base, tutt’ora riconosciute e sui cui si sviluppano continuamente esperienze di scuole libertarie, di un approccio antiautoritario all’educazione e alla scuola. Sarà proprio il tema dell’educazione, infatti, che avvicinerà per primo la sensibilità dello scrittore russo alle idee dell’anarchismo.Kropotkin però coglie, dalle sue opere, anche altri aspetti centrali del pensiero di Tolstoj e li interpreta in chiave libertaria: la denuncia dei mali della cosiddetta civiltà e il bisogno di un ritorno alla natura con l’abbandono di tutte quelle artificiosità che «noi chiamiamo vita civile»; la potente condanna della guerra e la rivalutazione del ruolo delle masse a scapito del singolo eroe nel progresso della storia; il tentativo di liberare il cristianesimo da ogni gnosticismo e misticismo e di descrivere Dio come la vita, o «come l’amore o in generale come l’ideale, di cui l’uomo è cosciente in se stesso»; la lotta contro lo stato e la chiesa, il governo in quanto tale e i dogmi religiosi; le disuguaglianze sociali e il sistema capitalistico. E inoltre: l’incitamento alla disobbedienza civile; il sostegno a una visione non antropocentrica e più rispettosa degli altri esseri viventi; alla costruzione di una società decisamente più semplice e umana. Rispetto alla questione della «non resistenza al male», concetto fondamentale nell’elaborazione di Tolstoj che ispirerà anche la vita di Gandhi, Kropotkin, diversamente da altri anarchici, sottolinea che essa va letta non come un rifiuto di lottare contro le ingiustizie ma, piuttosto, nel senso che le lotte, giuste e sacrosante, non devono contemplare la violenza: si tratta cioè «della non resistenza al male con la violenza». Anche Max Nettlau evidenzia in modo positivo l’apporto che Tolstoj ha dato arricchendo molto il pensiero anarchico soprattutto in Russia. Ribadisce le stesse sottolineature fatte da Kropotkin rispetto alla teoria della «resistenza al male» come una forma di lotta, di disobbedienza civile, di rifiuto di scelte autoritarie, di condanna della violenza dello Stato e dei governi.

Carlo Rosselli

È nota quella pagina del sesto capitolo di Socialismo liberale nella quale Carlo Rosselli esaltava il metodo liberale quale miglior mezzo di autogoverno per una società; un metodo che aspirava a che le comunità politiche potessero amministrarsi da sé «con le loro forze, senza interventi coercitivi o paternalistici». Tale metodologia, spiegava l’autore, consisteva nel principio che la libera persuasione individuale fosse l’unica via praticabile per arrivare alle decisioni riguardanti la polis nel suo insieme. Da un punto di vista più strettamente istituzionale, tale metodo poteva esemplificarsi in un insieme di regole del gioco, tese a contenere le inevitabili, e anzi auspicabili, discordie sempre risorgenti nella società entro una pacifica convivenza, capace di assicurare una feconda dialettica fra partiti, movimenti e individui.Risulta pertanto indubitabile l’appartenenza di Rosselli alla migliore tradizione del socialismo democratico, liberale, e più complessivamente libertario nel suo costante impegno a contrastare ogni soluzione dittatoriale, fascista o comunista che fosse. La passione democratica di Rosselli si sostanziava per essere prescrittiva, ossia in prima istanza si batteva per il pieno riconoscimento dei diritti individuali, per la promozione di una maggiore uguaglianza pur nel rispetto delle differenze, per la ricerca di una nuova forma di partecipazione politica che partendo dal basso non si risolvesse in una indistinta massificazione della società, ma garantisse cooperazione, così come autonomia e pluralismo.

Simone Weil

Non si può non essere d’accordo con Albert Camus, che definì la Weil «l’unico grande spirito del nostro tempo». Farne memoria è, allora, un invito a chi ancora si interroga sul senso della vita a leggerla e rileggerla, perché le sue parole sono come lampi che illuminano per un istante la notte del mondo in cui viviamo e sono pensieri che possono trasformarsi in attrezzi indispensabili per affrontare i pericoli dell’attualità.Weil ha mantenuto nelle diverse stagioni della sua breve vita una coerenza radicale e ha guadagnato come conseguenza il ritrovarsi fuori dagli schemi e dalle convenzioni sociali, politiche e religiose, sempre impietosamente smascherate.Non è assolutamente ipotizzabile dividere, né distinguere, in due momenti la biografia della Weil: il periodo militante, che è esplicito nelle Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale (1934) e il periodo mistico, dopo l’incontro con il cristianesimo, che appare con chiarezza in numerosi altri scritti. Sembra di vedere un’estrema coerenza tra la battaglia per la destituzione e morte dell’«io» – unica condizione perché possa, come dono e non come conquista ascetica, rivelarsi il divino – e la battaglia, altrettanto dura, antiautoritaria e antitotalitaria, per non accettare l’identificazione con qualsiasi gregge, tradizionale o moderno.

Gustav Landauer

Le grandi storie complessive dell’anarchismo e del pensiero anarchico hanno a lungo trascurato l’impatto del movimento tedesco e l’apporto teorico dei suoi intellettuali. Le cose sono cambiate a partire dagli anni Ottanta, quando la storiografia internazionale, ma anche quella italiana (si pensi ai contributi di Mirella Larizza e Giampietro Berti), si sono accorti dell’importanza di figure quali Rudolf Rocker, Eric Mühsam e naturalmente Gustav Landauer. L’attenzione per Landauer è andata crescendo nell’ultimo decennio, grazie alla pubblicazione delle Opere scelte (15 volumi usciti tra il 2008 e il 2019) e dell’enorme ricognizione biografica condotta da Tilman Leder (quasi mille pagine dettagliatissime). A esse, si è aggiunta una notevole produzione saggistica in diverse lingue, che ne ha ricostruito e discusso il pensiero e l’azione, nonché la traduzione dei suoi scritti in inglese, francese, italiano. Infine, negli ultimi anni sono stati convocati convegni internazionali (l’ultimo a Lione nel centenario della morte), quindi conferenze, presentazioni, iniziative diverse, molte promosse e divulgate dall’associazione Gustav Landauer Initiative di Berlino, che produce una ricca newsletter.

Clara Wichmann

Agli interessati del movimento anarchico e libertario di lingua italiana, il nome della Wichmann probabilmente non dice nulla. Per quanto a mia conoscenza, un solo suo articolo è stato pubblicato in italiano e precisamente nel 1990 sulla rivista «Volontà», corredato da alcuni cenni biografici.Pur essendo una teorica ed attivista di peso, impegnata in molti ambiti, il fatto di aver scritto i suoi testi in olandese non ha di certo facilitato la diffusione del suo pensiero al di fuori dei Paesi Bassi. Per fortuna, la madre ha tradotto parecchi suoi scritti in tedesco, che, pubblicati in varie riviste femministe e anarchiche, le hanno permesso di ampliare il raggio dei possibili lettori ed estimatori. Ora, a cent’anni dalla morte, è giunto il momento di farla conoscere, almeno sommariamente, anche al movimento di lingua italiana. Clara Wichmann studiò diritto a Utrecht, laureandosi nel 1912 con una tesi sulla trasformazione della nozione di pena. Durante i suoi studi universitari partecipò al movimento femminista. Dapprima nella Lega per il suffragio femminile, ma poi, più radicalmente, con articoli, dibattiti e conferenze a favore della liberazione delle donne. Riteneva che questa dovesse essere una liberazione sociale ed economica, per l’uguaglianza sostanziale tra uomini e donne. Rifiutava l’idea di «donna vittima» e spingeva per una loro emancipazione interiore, affinché le donne rivendicassero la loro indipendenza e la loro dignità.

Martin Buber

Buber, intellettuale atipico, non classificabile, al tempo stesso socialista religioso, sionista fautore di uno Stato bi-nazionale arabo-ebraico nella Palestina mandataria, ebreo credente ma lontano da ogni ortodossia religiosa, spesso in contrasto con le idee dominanti, anche all’interno della sua stessa comunità, è soprattutto noto come l’autore di «Io e tu» pubblicato nel 1923, in cui teorizza il principio dialogico come filosofia relazionale: un’interpretazione teologica della relazione tra sé e l’altro che metteva l’accento sull’assoluta necessità del dialogo con gli altri esseri umani e il «Tu» divino, che è il «tutto altro» e il «tutto vicino». Determinante per l’evoluzione del suo pensiero la relazione di Franz Rosenzweig, che purtroppo morirà prematuramente, con il quale collaborerà a una nuova traduzione della Bibbia che terminerà solo nel 1961. È a partire da questa collaborazione che il pensiero di Buber si concentrerà sulla comunità e il dialogo umano.

Mary Wollstonecraft

Formatasi intellettualmente intorno al gruppo dei rational dissenters, intellettuali inglesi radicali tra i quali figuravano Richard Price, Joseph Priestley e appunto William Godwin, Wollstonecraft esordì come scrittrice alla vigilia della Rivoluzione francese, evento che scosse alle fondamenta la società d’antico regime, imprimendo una accelerazione senza precedenti, su scala dapprima europea e poi mondiale, allo sviluppo dell’idea e della pratica dell’uguaglianza, politica e sociale.

Non a caso durante la Rivoluzione francese presero piede clubs femminili ed emersero notevoli figure di donne, che acquisirono visibilità nell’arena culturale e politica: Catherine Macaulay Graham, Helen Maria Williams, Marie-Jeanne Roland, Olympe de Gouges, più tardi Madame de Staël.

Colin Ward

«Come si reagirebbe alla scoperta che la società in cui si vorrebbe realmente vivere c’è già […] se non si tiene conto, ovviamente, di qualche piccolo guaio come sfruttamento, guerra, dittatura e gente che muore di fame? […] Una società anarchica, una società che si organizza senza autorità, esiste da sempre, come un seme sotto la neve, sepolta sotto il peso dello Stato e della burocrazia, del capitalismo e dei suoi sprechi, del privilegio e delle ingiustizie, del nazionalismo e delle sue lealtà suicide, delle religioni e delle loro superstizioni e separazioni». In questa citazione (Anarchia come organizzazione) è compendiato in maniera esemplare l’approccio di Colin Ward all’anarchismo. L’intento è quello di dimostrare che l’anarchia non è una visione, basata su congetture, di una società futura, quanto piuttosto un modo del tutto umano di organizzarsi, ben radicato da sempre nella concreta esperienza della vita quotidiana, che funziona a fianco delle tendenze spiccatamente autoritarie della nostra società e nonostante quelle.

Maria Luisa Berneri

Maria Luisa Berneri nasce ad Arezzo nel 1918 da Camillo e Giovanna Caleffi. Il padre si può considerare il più innovativo degli anarchici italiani della prima metà del Novecento, la madre è stata, tra le altre cose, redattrice della rivista «Volontà» nel secondo dopoguerra. Maria Luisa, così come la sorella Giliana, è un’attiva militante. Costretta dal fascismo a emigrare, nel 1926 si stabilisce insieme alla famiglia in Francia. Dopo l’uccisione di Camillo per mano stalinista, si trasferisce a Londra, dove condivide l’amore e la militanza con Vernon Richards ed è tra le animatrici più influenti del movimento anarchico inglese. Durante la Seconda guerra mondiale è redattrice di «War Commentary», contribuisce alla fondazione delle edizioni Freedom Press e dal 1945 diventa redattrice della rivista «Freedom», attorno a cui si raccolgono George Orwell, George Woodcock, Herbert Read, Alex Comfort e un giovane Colin Ward. Muore nel 1949 a soli trentuno anni a causa di un’infezione.

Pëtr Kropotkin

L’anniversario della morte di Pëtr Kropotkin (1921-2021) ci offre l’opportunità di interrogare il suo pensiero per valorizzarne quella parte che può stimolare la sua applicazione nella nostra contemporaneità. Il percorso intellettuale e militante di questo straordinario anarchico è ricco di suggestioni e di analisi ma anche di proposte concrete, riferite ovviamente all’epoca in cui visse. Tutte queste possono indicarci una via per soddisfare concretamente le esigenze degli esseri viventi in vari ambiti sociali.

Murray Bookchin

L’attualità e l’urgenza della questione ecologica – dimostrata ad esempio dai vari rapporti sulla diminuzione della biodiversità, sul riscaldamento globale, sulla distruzione di interi ecosistemi con i conseguenti aumenti di spillover, etc. – ci impone di trovare delle soluzioni praticabili e realmente incisive. Per farlo è necessario andare alla radice del problema prendendo atto del fatto che l’attuale sistema politico ed economico è incompatibile con l’ecosistema. Già quarant’anni fa Murray Bookchin (1921-2006), uno dei pionieri del movimento ecologista e uno dei pensatori politici radicali più originali della seconda metà del Novecento, evidenziava lo stretto legame tra questione ecologica e questione sociale.

Recensioni

La cura come principio organizzatore della società: una lettura del "Manifesto della Cura" di The Care Collective

Di critiche al neoliberismo se ne sono prodotte tante, tantissime negli ultimi decenni, in alcuni casi accompagnate da proposte alternative che vanno dal timido riformismo alla rivoluzione radicale. Il Manifesto della cura è una di queste. La sua particolarità sta nel fatto di utilizzare come centro della riflessione critica e della proposta concreta il concetto di cura. Autore del Manifesto è il gruppo The Care Collective, un collettivo inglese composto da persone del mondo accademico e dell’attivismo sociale. Fin dalla sua nascita, anno 2017, il gruppo di studio si è occupato della «crisi della cura» e con la pandemia, durante la quale le questioni legate alla cura sono diventate centrali, ha condensato le sue riflessioni nel Manifesto.

Andrea Satta "Niente di nuovo tranne te" dopo l'amore e la rivolta

Pediatra in bici della periferia romana, narratore del pensiero e della parola, Andrea Satta ha da poco pubblicato Niente di nuovo tranne te, il suo esordio discografico da solista dopo una carriera di oltre 30 anni con i Têtes de bois. Solitaria formazione dedicata alla canzone francese in Italia grazie a un rapporto molto stretto con Leo Ferrè soprattutto dopo il trasferimento del grande cantautore in Toscana. Uomo dalle mille iniziative, con questo nuovo album si lancia in un lungo viaggio nella memoria di famiglia dove riappaiono una fisarmonica verde e biciclette che diventano macchine d’energia. Così emerge un tessuto musicale fatto di salite e discese emotive, come metafora di vita e di pedali.

Tre donne anarchiche nella tempesta del Ventesimo secolo: un percorso di lettura al femminile

Il Novecento viene spesso dipinto come un secolo dai tratti esclusivamente, o prevalentemente, negativi: il secolo del totalitarismo, dei genocidi e degli stermini di massa operati dagli Stati contro popolazioni civili per lo più inermi. Siffatta rappresentazione coglie tuttavia solo un aspetto, per quanto veritiero e tragicamente cruciale, del secolo trascorso. In realtà, il ventesimo è stato anche un secolo contrassegnato da diversi fattori positivi: i regimi liberaldemocratici hanno infine avuto la meglio sugli Stati dittatoriali e dispotici; l’Europa ha vissuto, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, un lungo e inedito periodo di pace; nei paesi occidentali si è raggiunto un grado di benessere mai prima conseguito nella storia umana; il movimento dei lavoratori ha ottenuto in decine di paesi il riconoscimento di fondamentali diritti sociali; molti paesi eufemisticamente definiti in via di sviluppo si sono liberati dal giogo coloniale. Il Novecento è stato inoltre, non da ultimo, il secolo che ha visto esplodere, su un piano pubblico, la questione femminile e in cui diverse donne, armate di intelligenza, coraggio, passione e talento, si sono rese protagoniste nell’arena politica e culturale internazionale. Non è certo un caso che una buona parte di esse abbiano militato nella sinistra politica e in specie nella sinistra rivoluzionaria, più pronta di altri movimenti politici ad accogliere la sfida della parità di genere nell’ambito del suo progetto di liberazione dalle catene dell’autoritarismo politico e dello sfruttamento economico. Non stupisce dunque di trovarle, in particolare, nelle fila dell’anarchismo, il progetto di emancipazione più profondo, radicale e universale sinora concepito. In questa veloce rassegna ci piace segnalare, insieme, le opere di tre grandi anarchiche recentemente pubblicate e rese disponibili, o nuovamente disponibili, al lettore italiano: La libertà o niente, di Emma Goldman (elèuthera, Milano 2023); Viaggio attraverso Utopia di Maria Luisa Berneri (Tabor / Edizioni Malamente, Valle di Susa /Urbino 2022); Critica dei totalitarismi di Luce Fabbri (elèuthera, Milano 2023). Si tratta di volumi di autrici dotate ciascuna di una propria specificità, che sembrano quasi indicare un passaggio, con la loro traiettoria esistenziale, dall’anarchismo come progetto di azione rivoluzionaria al libertarismo come pensiero critico della società: Goldman, ebrea lituana trapiantata giovanissima negli Stati Uniti, fu una straordinaria militante politica rivoluzionaria, radicata nel XIX secolo ma capace, come pochi altri e poche altre, di esprimere le tensioni moderne del XX, cogliendo fermenti avanguardistici sul piano culturale, artistico e politico; Berneri fu anch’essa giovanissima militante e la precoce morte forse le impedì quel passaggio ad una vita maggiormente dedita allo studio che invece ebbe a compiere Luce Fabbri, docente presso l’Università di Montevideo, ma anche attivista anarchica fino alla fine dei suoi giorni (si rinvia ai profili biografici tratteggiati nelle Radici di «Semi sotto la neve» rispettivamente nei numeri 2/2022 e 6/2023). I legami, non solo intellettuali, tra le tre sono davvero consistenti: Goldman e Berneri, ad esempio, si conobbero personalmente a Londra e risiedettero nel 1938, per un periodo, nello stesso stabile, come ci ricorda Antonio Senta nell’ottimo studio introduttivo al volume della Berneri: «fu proprio Goldman in quell’anno a redigere l’introduzione alla prima antologia degli scritti di Camillo [Berneri], curata da Giovanna Caleffi ed edita a Parigi». Tutte e tre le autrici, inoltre, sia pure in maniera diversa, sono state costrette a confrontarsi col tema dell’esilio e dello sradicamento, elemento che senz’altro ha influito nella loro riflessione.

Liberare spazi educativi. Dai libri di Dambrosio a ulteriori luoghi di dibattito

L’interrelazione fra i progetti educativi e gli spazi idonei a ospitarli è inscindibile; pur non essendo un tema nuovo, rimane fondamentale: ogni esperienza pedagogica del passato, che risulta di riferimento a chi cerca di attuare oggi approcci rispettosi dell’evoluzione delle giovani generazioni, si è dovuta confrontare sul come e il perché in rapporto al dove. Ciò è vero soprattutto in luoghi urbanizzati sconvolti dai cambiamenti sociali dovuti anche all’uso imperante del digitale. A riguardo possiamo trovare molti spunti di riflessione nel libro di Giuseppe Dambrosio, Spazio delle mie brame – Riflessioni sul potere, lo spazio e l’educazione diffusa, Mimesis, Milano 2023, testo che va a completare il precedente dell’autore, Potere, soggettività, postmodernità, Sensibili alle foglie, Roma 2021. In entrambe le pubblicazioni l’autore si riallaccia alle analisi di Michel Foucault riguardanti i dispositivi di controllo all’interno delle istituzioni totali e la loro trasposizione in ogni ambiente strutturato della società fino alla limitazione delle libertà di scelta, individuali e collettive, pianificate da un addestramento all’autodisciplina e all’obbedienza efficace a tal punto da venir, paradossalmente, percepito come accattivante fattore di realizzazione personale e integrazione sociale.Dambrosio nel suo primo libro cita Foucault, soprattutto da Les anormaux, per poi riflettere sulle possibilità di resistenza attuabili in una postmodernità caratterizzata da un’organizzazione sociale sempre più efficace nell’incanalare le energie individuali verso modalità di comportamento finalizzate a un modello unico di produttività, di progettualità nonché di svago. Se i nuovi poteri sono tanto subdoli proprio perché non hanno l’assoluta necessità di ricorrere a divieti, ma reprimono preventivamente attraverso forme di controllo difficili da individuare in quanto introiettate come norma, la nostra lente dovrà saper scardinare queste trappole per focalizzare ambiti di renitenza costruttiva. Le argomentazioni dell’autore si avvalgono di vari contributi (Augè, Bauman, Baudrillard, Benasayag, Frances, Laffi, Lazzarini, Massa, Palmieri e Pierangelo Barone che firma la prefazione), a dimostrazione delle svariate implicazioni che questi cambiamenti epocali, ampliati dalle derive tecnocratiche, possono produrre. Potere, soggettività, postmodernità è suddiviso in due parti: La medicalizzazione delle differenze, prima parte, analizza i principali ambiti entro cui si instaura una relazione di potere dettata da ruoli verticali (ad es. medico/paziente, insegnante/allievo) e fa notare come il linguaggio giudicante si insinui in maniera arbitraria al fine di ampliare le categorie di comportamento definite anomale da un codice utile al neoliberismo. Questo per inglobarle in una denominazione presa a prestito dal DSM (manuale diagnostico statistico redatto dalla potente lobby degli psichiatri statunitensi che è ormai diventato una sorta di vangelo e non soltanto per gli operatori del settore) e veicolarle nei protocolli scolastici, inquadrando così le naturali difficoltà in «disagio», «inadeguatezza» o «disabilità»: stigmi e discriminazioni, irrispettose delle fasi di crescita tipiche dell’età evolutiva e delle risorse insite in ciascuna bambina o bambino, che condizioneranno la percezione di sé e del mondo circostante, nonché delle possibilità future. Scrive Dambrosio: «Poiché gli standard di prestazione sono aumentati in modo vertiginoso e gli stimoli esterni agiscono oggigiorno in modo continuativo e invasivo basta un sintomo di troppo per essere delineati come anormali e quindi assoggettabili a un trattamento farmacologico-rieducativo finalizzato al recupero o alla prevenzione continua della devianza e della marginalità sociale. (…) Ne deriva la totale conformazione a un’intelligenza che non è altro che la capacità di disintegrarsi per conformarsi al sistema-azienda post moderno». Nella seconda parte dal titolo Assoggettamento e soggettivazione nell’epoca post-moderna, viene analizzata la deriva spazio-temporale che coinvolge direttamente l’esistenza di ogni persona: il corpo, la mente, la relazione con i propri simili e l’ambiente, le modalità di poter disporre di luoghi e orari. La decodifica sociale scandita da esasperazioni digitali, come gli algoritmi, risulta tanto coinvolgente da esser illusoriamente percepita come opportunità gratificante, anziché come una gabbia che diseduca alla relazione e al confronto.Non a caso la psichiatria sta elencando sintomi e trovando nuove denominazioni per rinchiudere entro una descrizione patologica ogni mancato adeguamento a queste modalità e sull’argomento avremo di che approfondire negli anni a venire.Questa seconda sezione del libro si focalizza sull’interrelazione fra i concetti di «non spazio», «non corpo» e «non tempo»: una distopia? Eppure la nostra quotidianità non ne è scevra, in quanto la regolamentazione coercitiva del tempo/spazio si insinua nelle nostre azioni con una prospettiva impalpabile e progressiva. E qui Dambrosio sente l’urgenza di dare forma a paradossi e decifrarne i significati affinché non ci travolgano, si colgano in tempo le implicazioni più nefaste, si riconoscano gli squilibri conseguenti e si concretizzino esperienze resistenti in luoghi liberi da simbologie omologanti nel rispetto di ritmi cadenzati sui bisogni. L’autore, utilizzando una sintesi espositiva efficace, alterna la critica all’esistente con proposte di superamento, privilegiando gli aspetti educativi nell’ottica di una pedagogia critica, non con l’intento di offrire soluzioni indiscutibili ma per avviare spunti di dialogo in contrapposizione al dilagante senso di impotenza e porre «fine al dispositivo di annichilimento della libertà del soggetto, per assumere quello di insegnamento dei modi attraverso cui l’individuo può praticare la libertà». Ribadendo questo concetto, nell’ottica di una coerenza fra mezzi e fini, crea una linea di continuità con la sua recente pubblicazione per le edizioni Mimesis: Spazio delle mie brame, dedicato ai luoghi dell’apprendimento dove «la scuola, così come è stata sin d’ora concepita e tanto più riformata nella sua versione digitale, che definirei tecno-fascista, risulta esser lo spazio educativo meno adeguato alla sperimentazione». Troviamo dettagliate descrizioni inerenti agli ambienti scolastici appositamente strutturati per divulgare un sapere univoco e per impedire contatti con il circostante condizionando la libertà di insegnamento, tanto che per attuare progetti o piccole sperimentazioni si devono raggirare gli impedimenti burocratici e avversare quegli approcci professionali tesi soltanto a un deleterio adeguamento. Si potrebbero comunque considerare come palliativi lontani da ciò che, come anche Foucault sosteneva, dovrebbe intendersi come luogo di partenza per ogni forma di utopia: luoghi dove «il corpo risulta esser il vero protagonista, un corpo che sperimenta e sonda i propri limiti, che esalta tutte le sue potenzialità vitali». Ecco perché le osservazioni di Dambrosio, col suo sguardo privilegiato alla scuola pubblica, risultano avvincenti per avviare un dibattito sulla qualità di ogni progetto educativo: «il lavoro proposto, inserendosi nella prospettiva di una pedagogia critica, affronta dunque in generale l’importante e spinosa questione del potere in educazione e in particolare indaga l’elemento spaziale del dispositivo disciplinare strutturale». La riflessione sugli ambiti idonei ad accogliere relazioni educative rispettose dei bisogni, a prescindere dal ruolo che vi si svolge, è un primo doveroso passo per poter attivare esperienze didattiche di superamento dell’attuale impostazione strumentale al controllo, all’inibizione degli interessi, alla rincorsa verso modelli precostituiti di comportamento inquadrati entro una cornice di accettabilità sempre più ristretta. L’eccessiva digitalizzazione è un strumento utile all’ideologia meritocratica; mentre l’aspettativa si fa sempre più performante e la richiesta di allineamento agli standard crea una forbice più ampia, dilaga l’individuazione di condotte anomale per le quali viene richiesto un supporto in terminipsicologici e medici: a causa della mancata presa in carico pedagogica, basata sull’osservazione, l’ascolto e la relazione, questi nuovi dispositivi di controllo riescono a plasmare un’uniformità disarmante. E se la scuola si avvale di protocolli normativi statici, dove l’utilizzo di termini come «comunità educante» o «partecipazione» maschera un rigido approccio al sapere considerato al pari di una merce da assimilare e incasellato in valutazioni selettive mentre non si stimolano le capacità critiche o non si valorizzano le curiosità e il piacere della scoperta, questo avviene anche perché gli ambienti scelti per l’istruzione sono strutturati a tal fine, con l’imperante spauracchio della prevenzione a fini di sicurezza che spesso blocca sul nascere qualsiasi proposta innovativa. Dambrosio prende a riferimento vari autori e, pur tralasciandone di fondamentali come Colin Ward (in particolar modo le sue anticipazioni sull’argomento in: L’educazione incidentale, elèuthera, Milano 2018), appare chiara la volontà di contribuire a un dibattito in termini libertari, di dar voce alle esigenze delle giovani generazioni ed entrare in empatia con i loro desideri, nel tentativo di osteggiare alla radice gli intenti di un sistema gestionale delle esistenze dove l’omologazione è funzionale alla delega e alla de-responsabilità. Egli rilancia l’idea dell’educazione diffusa, cioè di una scuola inserita nell’ambiente urbano dove l’insegnante diventa guida ispiratrice nel cercare risposte alle curiosità, dove le «competenze» assumono un significato plurale di interrelazione fra saperi: una città diffusa che si fa spazio educativo e luogo di apprendimento attraverso il coinvolgimento di chi vi vive, vi lavora, vi transita. Una scuola che non sarebbe più chiusa fra mura ma è parte del territorio circostante perché con esso entra in continua relazione: a saperli individuare anche in una città vi possono essere molti «nodi strategici pensati per rendere l’apprendimento dei minori qualcosa di vivo e vitale, stravolgendo nei metodi, negli strumenti e nelle finalità la formazione. (…) Accompagnandoli verso quel nuovo oggetto del desiderio che è il mondo stesso, il mondo reale fatto di piazze, di strade, di ponti, di stazioni metropolitane, di parchi, così come di boschi, di campi, ed insperate, se non improbabili scenografie dell’esistenza».Ecco allora che mettere in discussione gli spazi educativi rimanda imprescindibilmente alla presa in carico dei luoghi dove l’esistenza sociale prende forma attraverso scelte etiche, filosofiche, politiche che rimettano al primo posto l’aspetto relazionale e il coinvolgimento attivo di chi è protagonista di una determinata esperienza; fare ciò, infine, implica parlare di approcci critici al sapere o, come suggerisce Francesco Muraro nella postfazione di Spazio delle mie brame, di «diritto a un’istruzione liberata».

Riflessi nello sguardo e nella voce di Woody Guthrie

All you can write is what you see!

Woody Guthrie nasce a Okemah (Oklahoma) nel 1912 e muore, consumato dal morbo di Huntington, al Creedmoor State Hospital a New York nel 1967. Nell’arco di 55 anni di vita, Guthrie ha attraversato anni che possiamo definire fondamentali per la storia degli Stati Uniti - e non solo - gli anni che hanno traghettato l’America verso quella che alcuni storici definiscono come «Era atomica», espressione coniata dal giornalista del «New York Times» William L. Laurence nel 1946. Woody è passato attraverso due guerre mondiali, la crisi del ’29 - forse la crisi economica più crudele del ‘900 - le migrazioni interne causate dalla siccità e dalle tempeste di polvere che si scatenarono nel Sud-ovest degli Stati Uniti negli anni’30, le grandi dighe e le grandi opere del New Deal rooseveltiano, gli scioperi e le rivolte popolari e la diffusione delle idee anarchiche, socialiste e comuniste del primo ventennio del ‘900, fino alla caccia alle streghe operata dal maccartismo, e ancora la nascita delle prime comuni Beat lungo il «Topanga Canyon» e le proteste in favore dei movimenti per i diritti civili degli anni ’50 e ’60. Anni di grandi trasformazioni sociali, politiche ed economiche, che Woody ha registrato con metodo e precisione sui suoi taccuini e sui suoi diari, fissando le sue impressioni in forma di disegno, di pensieri sparsi, di strofe di canzoni o sulle pagine dei suoi romanzi e dei tanti articoli pubblicati sul People’s Daily World in una rubrica intitolata «Woody Sez».
Considerato il padre della canzone americana di impegno sociale, Woody ha rappresentato la maggior fonte di ispirazione per artisti come Pete Seeger, Bob Dylan, Ramblin’ Jack Elliott, Phil Ochs, Bruce Springsteen, Joan Baez, dapprima e Steve Earle, Jeff Tweedy, Billy Bragg, Mary Gauthier, Ani Di Franco e tanti altri successivamente, non solo per i temi trattati nelle sue canzoni, ma anche e soprattutto per quel particolare sguardo con cui osservava l’America passargli davanti. Uno sguardo che non si lasciava certo abbagliare dalle luci al neon delle insegne luminose delle grandi città, o dalle cromature luccicanti delle Cadillac che scivolavano radiose lungo le Highways, bensì uno sguardo che, come una mano amichevole, si allungava verso chi si trovava a vivere sul lato meno luminoso del Sogno Americano.

Letture della prefigurazione

Coerentemente con l’idea di fondo che ispira questa rivista proponiamo ancora alcune letture che possono rappresentare stimoli e suggestioni interessanti per i nostri lettori. Lo scorso numero abbiamo suggerito il libro di John Clark (edito da elèuthera) che ci ha presentato una prospettiva sperimentale e una visione libertaria della società. In particolare ricordo ai nostri lettori e a quanti hanno voluto leggerlo che Clark ci ha raccontato di esperienze di democrazia diretta e di relazioni libertarie in India e in Sri Lanka (oltre al Rojava e al Chiapas). Per sviluppare ulteriormente queste conoscenze asiatiche (in particolare dell’India) ecco il libro di Catia Dini, Al servizio del cosmo (EMI, Bologna, 1998), che ci presenta delle esperienze di autogestione nei villaggi indiani secondo lo spirito di Gandhi. Dini ci fa riflettere su come il modello di sviluppo occidentale abbia provocato in pochi decenni danni ambientali irreparabili e vistose lacerazioni sociali in tutto il pianeta. Gandhi aveva invece individuato, già all’inizio del secolo scorso, un modello alternativo fondato su uno sviluppo rurale con epicentro il villaggio indiano, attraverso l’impiego di appropriate tecnologie alternative e un modello particolare di produzione egualitaria, il decentramento economico fondato sulla centralità artigianale, una distribuzione caratteristica di relazioni più consapevoli e autogestite. Ma soprattutto tutto questo legato a una distribuzione condivisa e partecipata della ricchezza in armonia coerente con l’etica, la cultura, la religione, l’educazione e l’amicizia in ambito famigliare e sociale, caratteristiche del contesto indiano. Il libro traccia insomma una panoramica significativa della realtà indiana che non appare nelle descrizioni ufficiali dei governi e degli enti internazionali ma proprio per questo si dimostra veramente interessante e utile.

Stratocaster o Balalaika? Per uno sguardo sonoro sul conflitto in Ucraina

Nel muro di fronte a Giolitti, una delle migliori gelaterie romane, compare ancora, scolorita e quasi invisibile, la scritta Van Thieu vattene. Già ma chi è Van Thieu? Lo spiega Wikipedia: «generale e politico vietnamita, presidente e dittatore del Vietnam del Sud dal 1965 al 1975» cioè un uomo al potere fino alla disfatta americana e alla liberazione del paese. Proprio il periodo che ha sconvolto il sud-est asiatico e contemporaneamente ha visto emergere in intere generazioni una coscienza pacifista antimperialista e nell’area della sinistra italiana un sentimento antiamericano che sembra permanere a distanza di oltre cinquant’anni anche nel modo di schierarsi sulla guerra in Ucraina. Un sentimento rappresentato da numerosi osservatori fra i quali la studiosa di scienze sociali Oksana Dutchak e Andrea Papi su «Semi sotto la neve» con questa considerazione «la partigianeria di una parte consistente della sinistra, intesa come complesso culturalmente identificabile, contro le visioni politiche e sociali del blocco occidentale, di cui pure storicamente e culturalmente è parte».

Leggere l'anarchia

Sono esattamente cinquant’anni che il libro più diffuso e forse il più importante scritto da Colin Ward, Anarchia come organizzazione, è stato editato per la prima volta in italiano (Edizioni Antistato, Milano, 1976). Il testo, che ha avuto in questi anni diverse riedizioni (elèuthera, Milano), rappresenta sicuramente una sorta di manifesto programmatico della rivista che avete in mano. Colin Ward con questo libro ha capovolto radicalmente la prospettiva dell’anarchismo tradizionale. Infatti, le tesi sostenute e sviluppate nelle pagine del volume modificano letteralmente e concettualmente la concezione anarchica secondo la quale è solo attraverso un «evento» rivoluzionario che può pensarsi una società libertaria. Secondo Ward l’anarchismo nelle sue espressioni spontanee e autonome esiste già in queste nostre società e si manifesta in tutte quelle forme organizzative che uomini e donne si danno autonomamente e senza l’intervento dello Stato, quando devono risolvere i problemi del vivere quotidiano. L’organizzazione antiautoritaria, in alternativa a quella autoritaria, è quindi una realtà che già esiste, seppure sotto una coltre di neve che ne oscura la visibilità, e che deve essere ampliata, sostenuta, protetta dalle ingerenze dello Stato e che, moltiplicandosi, può rappresentare una alternativa reale al processo di cambiamento tradizionalmente rivoluzionario. Sulla scia infatti delle tesi che sono sviluppate nel libro, i redattori di «Semi sotto la neve» cercano di muoversi coerentemente con queste idee di un anarchismo sperimentale, pragmatico, propositivo. Ma, soprattutto, di dare voce e visibilità a tante iniziative ed esperienze libertarie che, come semi sotto la neve, rappresentano in concreto una soluzione antiautoritaria ai tanti problemi che una società libera inevitabilmente deve affrontare.

Il camionista e l’anarchia. Un libro e oltre

Il libro Discorso sull’autogoverno di Matthew Wilson, pubblicato da elèuthera a fine 2022, traduce bene il senso del titolo inglese: Rules Without Rulers: The possibilities and Limits of Anarchism, un testo dai molti pregi, che efficacemente mette a tema il nocciolo dell’invettiva che un camionista scagliò, nel 2005, in Scozia, contro i manifestanti anti-G8: «Maledetti anarchici, siamo rimasti bloccati negli ingorghi tutta la mattina grazie a voi. Pensavo credeste nella libertà! E la mia libertà, allora?» (Wilson 2022: 21).Come dice l’autore, quell’invettiva pone infatti un problema: se è vero che «l’anarchismo, o forse più correttamente gli anarchici, partono spesso dal presupposto di una concezione assoluta della libertà», ne consegue che proprio questa concezione renda ineludibile un nodo pratico perché teorico: «Quanto è legittima l’istanza di una libertà assoluta? Cosa significa davvero una tale rivendicazione?» (Wilson 2022: 22) e ciò soprattutto se si vuole che l’«anarchismo (…) sia preparato a costruire davvero un nuovo mondo, e non semplicemente a fare una prova generale incentrata sulla protesta» (Wilson 2022:10).

1968: Suoni e visioni di un’esplosione inevitabile

In quegli stessi anni, invece, sul fronte statunitense, dopo l’ubriacatura del folk politico il mondo della musica sembrò aver trovato nell’underground e nella nuova canzone d’autore la parola chiave dell’innovazione creativa. Una scelta ispirata dai sogni cupi ed estremi del gruppo rock «The Velvet Underground» attivo nelle viscere newyorkesi sotto la guida artistica di Andy Warhol. La formazione dei «Velvet», già nella struttura, si presentava fuori dagli schemi, guidata, com’era, da una ex modella e un gruppo di performer che aveva trovato nel rock il messaggio ideale per mettere in pratica un progetto denso di invenzioni sonore e immagini di morte, sesso e alienazione, lanciato con il celebre show «Exploding Plastic Inevitable» che nel 1966 a New York offriva chiare indicazioni sulla prospettiva creativa elaborata da Andy Warhol. Dai sotterranei urbani di New York emergeva un messaggio aspro ma fortemente innovativo che avrebbe influenzato anche l’Italia che, in perfetta coincidenza di tempi, sempre nel biennio ‘66-‘67, incrociando arte moderna e musica, dava vita a un progetto «underground» tutto italiano. Come Warhol, il pittore Mario Schifano, nella veste di sperimentatore di nuovi linguaggi, era l’ispiratore di «Dedicato a» un album realizzato da un gruppo psichedelico, che in suo onore aveva preso il nome di «Le Stelle» di Mario Schifano, dove si mostrava una condivisione di sentimenti e gusti, probabilmente determinata dalle frequentazioni della «Factory» di Warhol e dell’ambiente rock più innovativo da parte di Schifano.

Percorso di lettura tra guerra e pace

La guerra come morbo subdolo che si insinua nelle vite. La guerra come macchina implacabile, che tutto distrugge e calpesta. Che piove dal cielo con scrosci di bombe. Che non sa leggere, sa solo incendiare. Sono queste alcune delle immagini che evoca lo scrittore e poeta José Jorge Letria nell’albo La guerra (Salani, 2020) e da cui partiamo per un breve percorso di letture sul tema. Recentemente pubblicato in Italia, La guerra è finita di David Almond (Salani, 2021), racconta una storia nel contesto della Prima guerra mondiale ma il mondo in crisi che viene descritto e la sua assuefazione alla violenza sono pienamente attuali. Il cuore del racconto è racchiuso nella domanda urgente di John, il bambino inglese protagonista: “come può un bambino essere in guerra?”

Rock, utopia e liberazione all’alba degli anni ‘70

«Forse così sapremo quello che vuol dire affogare nel sangue tutta l’umanità». Queste parole tratte dal brano di apertura di «Arbeit Macht Frei», il primo album degli Area, al di là della sua straordinaria qualità musicale, ne evidenziano oggi, a 50 anni dalla realizzazione, anche la dimensione profetica. Un messaggio che rappresenta in modo drammatico e potente la sensibilità di una generazione di artisti verso una narrativa dai contorni inediti e segnata da una nuova consapevolezza. Basta guardare anche altri titoli presenti nel disco come, appunto, «Consapevolezza» e «Le labbra del tempo» per cogliere come mettessero in campo temi imprevisti molto al di là delle battaglie ideologiche che avevano animato il passaggio fra ’60 e ‘70 e affermavano come uno strumento, quale stava diventando la musica, si potesse utilizzare anche per raccontare storie e lanciare nuovi sguardi sul futuro. Un passaggio lucidamente raccontato dallo studioso di movimenti politici Diego Giachetti, con riflessioni utili a comprenderne il percorso.

L'isola di Kalief

Una racconto potente, doloroso e pieno di speranza allo stesso tempo. Una storia tristemente vera, per la quale si vuole scrivere un nuovo finale. Con l’auspicio che le scelte della nostra comunità civile e politica possano riempire anche il nostro presente del verde splendente dell’isola di Kalief.

Percorso di lettura: utopie concrete

In questa sezione presentiamo, attraverso delle brevi recensioni di libri, un percorso di lettura che privilegia alcuni temi che ci interessa approfondire. Iniziamo qui da un nuovo concetto di utopia, che da lontana e irrealizzabile, diventa una proposta concreta da mettere in pratica qui ed ora, ma mai definita e sempre in divenire.