Quadrimestrale.

Editoriale alla sezione

Editoriale n. 9

Nei suoi noti romanzi distopici, La fattoria degli animali (1945) e 1984 (1949), George Orwell, geniale scrittore inglese socialista e libertario – a cui è dedicato un ritratto delle nostre Radici; l’altro presenta la figura della femminista anarchica Emma Goldman – ha descritto i tratti di società cupamente totalitarie e oppressive. Dove il sogno della costruzione di un mondo perfetto si risolve nell’incubo di un controllo poliziesco della società: ossessivo, onnipervasivo e parossistico. Se La fattoria degli animali è palesemente una parodia del totalitarismo sovietico, in 1984 vediamo tratteggiata una società che appare come una sorta di ibrido dei regimi nazifascista e comunista. Diversi lettori e ammiratori di Orwell hanno interpretato il secondo e più ambiguo romanzo anche come un monito contro la possibile degenerazione delle democrazie verso sistemi politici avversi alla libertà del pensiero e allo sviluppo spontaneo della personalità. Che il mondo attuale nel suo complesso – i regimi smaccatamente autoritari e totalitari, ma anche l’insieme di Stati ascrivibili al campo delle democrazie liberali – presenti, dove più dove meno, tratti distopici, «orwelliani», è un fatto evidente per chi sappia osservare la società con spirito libero e critico. Rinascita e consolidamento di movimenti e partiti di ispirazione neofascista; aumento dei fondamentalismi religiosi; diffusione, a destra e a sinistra, di tendenze populiste, demagogiche e verticistiche; crescita esponenziale del controllo sociale per mano pubblica o privata; irregimentazione delle masse; diffusione e imposizione di forme di pensiero unico; insofferenza e intolleranza verso il pensiero critico e il dissenso: l’autoritarismo ha assunto i tratti di una vera e propria pandemia politica. Tra i dati più inquietanti che concorrono a formare questo quadro a tinte fosche, continuano a risaltare, con drammatica forza, soprattutto quelli relativi alle guerre e al mutamento climatico. I molteplici e sanguinosi conflitti che infiammano il mondo – in Medioriente come in Ucraina e in numerosi altri paesi, di cui poco o nulla si parla – evidenziano, come abbiamo già scritto, il fallimento della governance multilivello. È sempre più manifesta l’incapacità delle istituzioni internazionali, che si dicono preposte alla sicurezza sociale, alla tutela e al benessere dei popoli, di por fine alla sofferenza delle popolazioni civili. Appare altresì chiara la mancanza di una visione politica di ampio respiro, capace non solo di disegnare un percorso verso una pace giusta, ma anche di pensare con coraggio alla rimozione della cause che sono all’origine delle contese armate. Ma a infiammare il mondo contemporaneo non sono solo, metaforicamente, le guerre. La questione climatica, come aveva preconizzato Murray Bookchin fin dagli anni Cinquanta del Novecento, svela ogni giorno di più i suoi presupposti e risvolti sociali. L’aumento delle temperature, la siccità e la destertificazione, gli eventi climatici estremi, come i roghi di larghe parti del patrimonio boschivo, le inondazioni, lo scioglimento di ghiacciai millenari, la crescita della popolazione e la difficoltà di accesso alle risorse idriche di acqua dolce, stanno provocando una radicale modificazione del mondo naturale, che va nel senso della semplificazione, dell’alterazione dei fragili equilibri su cui si reggono gli ecosistemi, della scomparsa di un numero crescente di specie vegetali e animali. Questi stessi eventi, che sono il prodotto di un certo modello di sviluppo, di una specifica economia e di un determinato assetto sociale, causano, e ancor più provocheranno in futuro, modificazioni sociali e politiche radicali, quali spostamenti repentini di fasce significative della popolazione mondiale, lotta disperata per le risorse naturali vitali, aumento delle diseguaglianze e difesa sempre più accanita dei privilegi. Il sistema politico ed economico fondato sugli Stati e sull’economia capitalista mostra tutti i suoi limiti e le insanabili storture a cui dà luogo. Il fatto è che il governo mondiale, più che costituire la soluzione di questi problemi, ne rappresenta, al contrario, in gran parte la causa. Esso è infatti il principale artefice dell’«anarchia», nell’accezione che a tale termine attribuiscono gli Stati e i loro apologeti: un caos generalizzato, un disordine sociale, la guerra di tutti contro tutti, la violenza e la sopraffazione dei più deboli da parte dei più forti. Un profondo cambiamento culturale, politico ed economico si impone alla nostra società. Esso non può che iniziare dall’acquisizione di una vera consapevolezza delle cause di questi mali politici, sociali ed economici. E deve necessariamente proseguire con la ricerca di soluzioni concrete e immediate, ma al contempo capaci di incidere profondamente nella realtà, determinando un cambiamento generale di indirizzo. Lo ripetiamo: «Semi sotto la neve» è una piccola rivista, che raggiunge un numero limitato di lettrici e lettori. Insieme ad altre piccole realtà dell’editoria e dell’informazione, può tuttavia contribuire a fa crescere la coscienza critica della società. Ambisce in effetti a svolgere questo ruolo, con la forza di chi è persuaso che la pars construens, la progettualità sociale fondata sulla libertà e sul mutuo appoggio, sia altrettanto, se non più importante della pars destruens, della critica radicale e demolitrice dell’esistente, che rischia di risolversi in uno sterile esercizio di retorica politica, qualora non si abbia ben chiaro ciò che si vuole sostituire a quanto ci si propone di eradicare. Ed ecco cosa troveranno in questo numero lettrici e lettori.

Editoriale n. 8

Prima di entrare nel dettaglio del numero, pare opportuno un sia pur rapido accenno a due questioni che appaiono particolarmente rilevanti, rispetto alle quali ci sentiamo di condividere con le nostre lettrici e i nostri lettori una posizione di redazione. Al momento in cui mandiamo in stampa la rivista, la tensione politica internazionale non accenna a decrescere e se apriamo i giornali o consultiamo le notizie sul web, non possiamo fare altro che essere presi dall’angoscia. Dilagano le notizie sui conflitti, ormai intrecciati in un sistema sempre più complesso di appoggi, alleanze e minacce. In questa difficile situazione, il nostro modesto apporto non può essere altro che un appello perché tutti gli scontri armati cessino al più presto.
La carenza e l’indebolimento di relazioni fondate strutturalmente sul mutuo appoggio, li vediamo e tocchiamo nel nostro mondo in vari ambiti, dal globale al locale.
Nell’ambito della politica interna, ad esempio, un tema che ci tocca sempre più da vicino è il graduale smantellamento della sanità pubblica, che sperimentiamo con sempre più lunghe liste di attese a causa della carenza di personale. I minimi investimenti nella sanità degli ultimi anni causa la fuga di moltissimi medici e infermieri al settore privato o all’estero, ma quello che più preoccupa è non vedere nessuna soluzione all’orizzonte.
Questo secondo spunto ci permette di iniziare la presentazione del numero dagli articoli dedicati al tema della medicina e della cura. In questo numero affrontiamo infatti il tema della medicina di genere e la sua recente inclusione nella medicina occidentale. Non si parla di medicina «delle donne», ma di un’apertura atta a valutare la cura dei disturbi secondo parametri più ampi, che tengano in conto che le differenze tra persone non sono solo biologiche ma anche ambientali, culturali, sociali, economiche. Il concetto della cura, ampliato al «prendersi cura di…» può essere centrale nella gestione politica delle relazioni e per modificare equilibri. La prospettiva individualista che è alla base del sistema capitalistico ha permeato la visione che abbiamo dell’altro e ci ha abituato alla delega della cura, considerando l’interdipendenza una questione di debolezza, associata all’ambito femminile (versus l’indipendenza e la forza, che identifica nell’immaginario tradizionale l’ambito maschile).
Per poter immaginare un mondo basato su diversi rapporti sentiamo la necessità di affrontare gli equilibri che si instaurano in famiglia, prima comunità nella quale impariamo a muoverci. A questo proposito, una citazione è per il film C’è ancora domani di Paola Cortellesi, che con linguaggio poetico ha portato nel mainstream una riflessione sul lungo processo (ancora in corso) di emancipazione delle donne nella società italiana, toccando temi fondamentali, come i modelli ereditati di relazione tra uomo e donna, ed esprimendo la necessità di istituire nuove relazioni famigliari basate sulla collaborazione e l’amore, invece che sulla sopraffazione. Il merito del film ci pare ovviamente non risieda nella questione del voto, quanto nel riconoscere che siamo ancora figli di quei modelli di relazione e che finché non riusciremo ad offrire nuovi modelli ai nostri figli e alle nostre figlie non possiamo sperare che scompaiano le disuguaglianze.
In questo numero affrontiamo sotto varie angolature la questione dell’essere membri di una comunità all’interno di comunità, dal micro al macro. La necessità di trasformarci in membri pienamente responsabili della nostra comunità è fondamentale per la salvaguardia della grande casa in cui viviamo, l’ambiente. Un approfondimento che definisce l’eco-anarchismo ci ricorda come le nostre intime famiglie primarie si inseriscano in comunità locali e che a loro volta si ineriscono in comunità regionali sia umane che più-che-umane (la Terra intera).
Sul rapporto con la natura e le piccole comunità, un altro film recente degno di nota è Un mondo a parte, di Antonio Albanese, che fa luce su due temi fondamentali: la sopravvivenza dei piccoli borghi periferici rispetto alle grandi città, e la scuola come cuore di una comunità. È proprio dalle piccole realtà che dobbiamo ripartire per poter aspirare a cambiare le cose. E a questo puntiamo con questa rivista, presentando, sostenendo e diffondendo esperienze che esistono nonostante tutto e dalle quali possiamo trarre spunto.
Sul ruolo che ciascuno di noi può avere nel cambiamento in senso libertario dei rapporti sociali, utili indicazioni vengono sia dall’articolo di Francesco Codello, che tratta il tema dell’anarchismo pragmatico o post-negativo, che da quello di Samuel Clarke, che descrive il funzionamento di una cittadina secondo principi libertari. Le conclusioni dell’articolo di Clarke, che apre questo numero, potrebbero essere utilizzate per un Manifesto della nostra rivista: «Se nel mondo ci sono pratiche anarchiche che esistono da più tempo del nostro inferno capitalistico, allora dobbiamo solo riaccendere quelle pratiche. Non dobbiamo necessariamente costruire una nuova utopia apparentemente aliena, dobbiamo solo incoraggiare i valori umani che precedono la nostra attuale distopia».
Il nostro immaginario è infatti così prigioniero di modelli e valori propri della società capitalista, che non riusciamo nemmeno a pensare che ci possano essere reali alternative. L’antropologia culturale, fortunatamente, ci ricorda come nella storia e nella geografia ci siano stati numerosissimi esempi di società organizzate in modi diversi e deve indurci a meditare sul fatto che quelli che molti sono portati a considerare dei dati naturali immodificabili, sono in realtà il riflesso di una visione culturale. E ci offre anche una speranza dimostrando che l’autorganizzazione che è scaturita storicamente in tante piccole comunità possa continuare ad essere la base delle interazioni umane.
Queste riflessioni ci portano al toccante resoconto che abbiamo ricevuto dalle carceri dell’Indonesia: il linguaggio fresco e sincero del compagno incarcerato ci permette di comprendere i diversi sensi che può avere la parola resistenza, e come in ogni situazione si possa cercare di cambiare le cose senza dare per scontato di doversi adeguare al sistema (e alla sua corruzione).
Il tema del mutuo appoggio costituisce il tratto distintivo di molti contributi. Per esempio, l’articolo di Alberto Franchini ci sembra importante perché ci ricorda che anche fare la spesa è un atto politico, mentre l’esperienza dei gruppi di mutuo aiuto, raccontata da Bruno Miorali, ci riporta all’importante ruolo di responsabilità di ognuno di noi all’interno di ogni piccola comunità.
In termini economici, aspetti centrali legati alla solidarietà o alla sua assenza sono trattati rispettivamente nella conversazione tra Piketty e David Graeber e nell’approfondimento dedicato alla dottrina «anarco-capitalista» che ha portato Milei al governo dell’Argentina.
Nella rubrica Radici presentiamo i profili di un grande classico dell’anarchismo, Errico Malatesta (1853-1932), e di una scrittrice libertaria scomparsa recentemente, Ursula K. Le Guin (1929- 2018). Nella sezione musicale presentiamo infine un’intervista a Andrea Satta, dei Tête de Bois, che ripercorre la sua carriera come un viaggio nei paesaggi quotidiani e famigliari, senza dimenticare «l’amore e la rivolta».

Editoriale n. 7

Un nuovo anno inizia, drammaticamente, all’insegna delle guerre e della morte, della distruzione e dell’odio.Guerra, nel martoriato Medio Oriente, tra Israele e Hamas, con pesantissimo coinvolgimento delle popolazioni civili inermi e di diversi altri paesi, confinanti e non; guerra – che continua, trascinandosi ormai due anni – tra la Federazione russa e l’Ucraina; conflitti, colpi di Stato, guerre civili in varie parti del globo.Sostenere che la guerra non è il mezzo più giusto e appropriato per la risoluzione della controversie internazionali (o nazionali), riprendendo la nota formula dell’articolo 11 della Costituzione della repubblica italiana, significa, al contempo, ripetere una cosa vera e facilmente constatabile, ma anche fare una affermazione purtroppo retorica. Utopistica, nel senso volgarmente comune del termine, in quanto evocatrice di una impossibilità politica. Giacché proprio la Costituzione italiana (1948), nel suddetto articolo, chiamava a svolgere un ruolo di pacifico arbitrato istituzionale le «organizzazioni internazionali», sottintendendo, in particolare, le neonate Nazioni Unite (1945), che avrebbero dovuto, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, garantire finalmente all’umanità un futuro di pace e benessere, limitando direttamente, sul piano del diritto internazionale e, più indirettamente, su quello del diritto nazionale, la sovranità e lo strapotere degli Stati nazionali.Così invece, in gran parte non è stato. Né poteva essere. Quell’ordine internazionale, che le istituzioni sovranazionali si impegnavano formalmente ad assicurare, nasceva su una base politica troppo diseguale, che si riflette, palesemente, nella struttura e nel funzionamento poco democratico dell’ONU, organizzazione formata, peraltro, da molti Stati retti in modo autoritario o dittatoriale. E si sovrapponeva a una realtà economica e sociale a sua volta contrassegnata da forti disparità e diseguaglianze. Sicché quel fragile equilibrio, su cui era sorto il nuovo mondo delle potenze vincitrici del Secondo conflitto mondiale, non era destinato, per sua natura, a durare a lungo. Immediatamente, infatti, si spezzò, già nel 1950, con la guerra di Corea, che rivelò al mondo quanto sostanzialmente «calda» fosse, in realtà, quella guerra definita eufemisticamente, a partire da Lippmann, «fredda», che vedeva contrapporsi il mondo delle democrazie capitaliste e dei loro alleati, spesso illiberali e antidemocratici, e quello totalitario del comunismo realizzato: una guerra combattuta spesso per procura, ma non meno crudele e devastante delle precedenti.

Esperienze alla sezione

L'Università Popolare Autogestita (UPA): una nuova esperienza di creazione e mobilitazione dell'autoapprendimento collettivo

La storia del movimento libertario ci insegna che l’educazione è sempre stata uno dei fronti di lotta per realizzare l’emancipazione delle classi lavoratrici e popolari, per una trasformazione radicale della società. Potremmo dire che, a partire dalla fine del XIX secolo, l’anarchismo ha proposto e sviluppato molteplici proposte ed esperienze che hanno seminato semi di speranza e utopie educative che germogliano periodicamente, soprattutto in tempi bui e turbolenti come quelli attuali. In questo articolo vogliamo parlare di un’esperienza nata nel 2021 a Barcellona che, pur non essendo affatto inedita, si inserisce nel rinnovato interesse per la pedagogia libertaria che sta crescendo oggi nel territorio della Catalogna. Un territorio dove lo sviluppo della dimensione politica ed eversiva della pedagogia ha avuto un percorso storico importante, soprattutto a partire dalla creazione della Scuola Moderna di Francesc Ferrer i Guàrdia nel 1901. Stiamo parlando dell’Universitat Popular Autogestionada (UPA), un nuovo progetto incentrato sulla formazione degli adulti, che si articola mettendo in discussione il modello accademico convenzionale: specializzato (in cui il lavoro intellettuale è separato da quello manuale), decontestualizzato (lontano dall’applicazione pratica), frammentato (tra le varie discipline) e servile agli interessi del capitalismo neoliberista che colonizza il mondo universitario. L’ascesa del fascismo e le molteplici espressioni di odio negli ultimi anni, dice uno dei membri dell’UPA, ci mostrano che abbiamo bisogno di strumenti che non mirino a creare un buon posto nel mercato globale, ma che servano a contrastare la sovra-informazione e le fake news, ad esempio, poiché generano un disorientamento paralizzante. È necessario educarsi per scoprire, inventare e imparare come attaccare il sistema e trasformare radicalmente una società escludente, diseguale e terrificante. Così l’UPA nasce dalla vocazione di rendere comune la capacità di autoapprendimento delle persone e in particolare dei movimenti sociali, vale a dire di collettivi e persone che hanno una vocazione di trasformazione dell’ambiente, dell’economia, della politica, della cultura e, logicamente, anche delle modalità di apprendimento. Secondo i membri dell’UPA, Kropotkin avvertiva e ricordava ai lavoratori che per fare la rivoluzione erano necessari gli ingegneri e non tanti scienziati sociali, economisti, sociologi, ecc. Per questo Paul Robin scrisse e promosse il «Manifesto per i sostenitori di un’educazione integrale» (1893) in cui difendeva un’educazione capace di formare in modo armonico tutti gli aspetti dell’essere umano. Questa idea è valida ancora oggi: è necessario formare persone pratiche in modo intelligente, cioè generare conoscenze pratiche e sviluppare pratiche con conoscenza per formare soggetti consapevoli della loro condizione e competenti nella rivoluzione. Quindi, di fronte all’attuale necessità di formare le classi popolari e operaie, e anche i militanti e i membri dei movimenti sociali in un nuovo contesto e in una nuova fase del capitalismo, l’UPA si ispira alla lunga tradizione libertaria dell’educazione degli adulti sviluppata in Catalogna nel corso del XX secolo. Uno dei principali riferimenti di questa tradizione è l’Ateneu Enciclopèdic Popular (AEP), creato nel 1902 a Barcellona: uno spazio di dibattito, di militanza e di documentazione del movimento anarchico ancora attivo, e che all’epoca era anche un’università popolare pensata proprio per formare e generare processi di autoapprendimento tra le classi lavoratrici. D’altra parte l’ispirazione per l’UPA arriva anche dalle Università Popolari di Abya Yala (Colombia, Messico, Argentina, Cile, Brasile ecc.) un territorio dove troviamo molteplici processi di autogenerazione della conoscenza. In realtà, come riconoscono i membri dell’UPA, questo si riflette nella composizione stessa del collettivo fondatore, un mix diversificato e impegnato di militanti tra i quali non mancano persone provenienti da queste regioni. Sono soprattutto loro a riconoscere l’importanza di spazi di formazione come questo. Tuttavia, l’UPA non è il primo spazio di formazione per adulti creato a Barcellona negli ultimi decenni. Allo stesso modo, la conoscenza e il riconoscimento di questi antecedenti e la trasmissione della loro memoria hanno permesso di migliorare l’approccio e sviluppare un progetto che, finora, sta funzionando. Parliamo, ad esempio, dell’UPAC - Università Popolare Autogestita della Catalogna - una precedente esperienza nata sull’onda del 15M (Movimento degli Indignados iniziato a Barcellona, sigla che prende il nome dal giorno di inizio delle proteste, il 15 maggio 2011 NdT) che ha riunito decine di persone per quasi due anni per riflettere su un nuovo modello formativo per gli adulti. Come afferma uno dei membri dell’UPA, uno dei motivi del fallimento del progetto dell’UPAC è stato dedicare tanto tempo e impegno alla parte meta-universitaria, cioè a pensare e discutere che tipo di apprendimento avrebbe dovuto proporre, che tipo di università, che tipo di struttura gestionale, chi avrebbe svolto dei compiti e chi no, quali obiettivi avrebbe avuto, ecc. I processi di definizione e le questioni burocratiche sono stati troppo lunghi e, seppur necessari, hanno bloccato e paralizzato l’avvio del progetto che non è mai venuto alla luce. A differenza dell’UPAC, l’UPA nasce dall’azione, cioè dalla volontà mirata e applicata di generare spazi di autogestione e di scambio di conoscenze senza la necessità di definirli nel dettaglio, purché siano coerenti con i valori dell’emancipazione collettiva. Nelle prime fasi del progetto e grazie alle conoscenze e alle esperienze pregresse, si concorda che la pratica abbia la precedenza sulla teoria che, però, è necessaria per far durare il progetto, almeno fino ad oggi. L’UPA inizia quindi offrendo moduli formativi di poche sessioni che rispondono ai seguenti quattro principi:

Territori indigeni autonomi ed ecoturismo nell'Amazzonia boliviana: opportunità e ostacoli

La Bolivia è un paese in Sud America conosciuto per le sue alte montagne, altopiani e laghi di sale che formano parte della Cordigliera delle Ande. Tuttavia circa il 65% del territorio del paese forma parte della grande regione amazzonica americana, con boschi e selve tropicali, montagne e colline, lagune e zone umide. L’Amazzonia boliviana è una delle regioni con maggiore biodiversità del pianeta e si trova nella parte settentrionale del paese; comprende una gran parte del bacino amazzonico, dove esistono diverse aree protette, parchi nazionali e territori indigeni, adatti all’ecoturismo. La cittadina di Rurrenbaque è uno dei principali accessi alle aree protette e ai territori indigeni. A Rurrenbaque si può arrivare in aereo in un’ora dalla capitale La Paz, ci sono vari operatori turistici che offrono percorsi nella selva, escursioni per osservare gli uccelli, uscite in canoa e l’opportunità di esplorare le culture indigene locali, situate per esempio nella Riserva della Biosfera e Terra Comunitaria di Origine Pilón Lajas, e nel Parco Nazionale Madidi.

L'associazione La Strada-Der Weg a Bolzano: un'esperienza di giustizia riparativa con i minori

La giustizia riparativa

L’idea di raccontare un’esperienza di giustizia riparativa nasce da un incontro fortuito con Ulli Oberlechner, psicologa e mediatrice, che da 22 anni è attiva nel servizio di mediazione con minori e coordina il servizio di Giustizia riparativa presso la onlus La Strada-Der Weg, in Alto Adige. Questo articolo è frutto di un lungo scambio che ho avuto con la dott.ssa Oberlechner. Incontro il concetto di «giustizia riparativa» per la prima volta in un corso di formazione sulla gestione dei conflitti e ne rimango subito molto affascinata. Quello che mi sembra rivoluzionario è proprio la ricerca di una «riparazione» a un torto, a un reato: la volontà di uscire dal binomio colpevole/punizione, la possibilità di entrare nella complessità dell’assunzione di responsabilità, del riconoscimento reciproco, dell’ascolto, per arrivare, infine, a una auspicabile riparazione, in cui qualcosa che si è rotto viene, appunto, riparato. Si tratta, principalmente, dell’instaurazione di un rapporto di fiducia, che impone una profonda trasformazione. Questo potere trasformativo mi ha infuso speranza, non avendo mai trovato soddisfacente il concetto di giustizia punitiva. Mi rimaneva sempre il dubbio che il colpevole ne uscisse – alla meglio – ancora più a pezzi e che questo, in fin dei conti, non servisse nemmeno alla vittima o alle vittime coinvolte. Non sono moltissime le pubblicazioni dedicate alla storia della giustizia riparativa. La lettura del volume Il libro dell’incontro. Vittime e responsabili della lotta armata a confronto, pubblicato nel 2021, è stata per me particolarmente illuminante e mi ha fatto conoscere per la prima volta il concetto di giustizia riparativa. Nel testo si ripercorre l’esperienza di mediazione messa in atto in Italia, tra alcuni responsabili della lotta armata degli anni Settanta, le vittime e i loro familiari e si fa riferimento anche al famoso caso esemplare costituito dal processo di giustizia riparativa messo in atto per riconoscere i danni subiti dalle vittime dell’apartheid in Sudafrica. Cos’è, dunque, la giustizia riparativa? Potremmo definirla come «un approccio innovativo nel campo del diritto penale, volto a promuovere la risoluzione di un conflitto che sia benefica per tutte le parti coinvolte, un approccio che esce da una logica punitiva e punta a un processo di mediazione e dialogo tra le parti, al fine di riparare i danni» (https://www.laleggepertutti.it/675635_giustizia-riparativa-cose-come-funziona-come-opporsi-al-rigetto). Nasce nel Nord America, negli anni ’80, da modelli di giustizia sperimentale con la definizione appunto di «restorative justice». La giustizia riparativa mira al riconoscimento delle responsabilità e al conseguente risarcimento della vittima, attraverso un percorso in cui la vittima e il reo insieme cercano di trovare attivamente una risoluzione di tutte le questioni che sono nate dal reato; tale percorso può essere esteso anche alla comunità allargata. Contrariamente a quanto comunemente percepito, la giustizia riparativa non si configura come una mera alternativa al tradizionale processo penale, né come un semplice meccanismo di riparazione del danno attraverso lavori socialmente utili. La partecipazione al programma può essere una iniziativa del giudice, oppure può avvenire su richiesta dell’imputato o della vittima. L’adesione a tali programmi è volontaria e libera da costrizioni. Nel sistema giuridico italiano la giustizia riparativa non può sostituire il processo penale, ma può coesistere con esso, come percorso parallelo. Può influenzarlo, ad esempio, come circostanza attenuante nella determinazione della pena o nella valutazione della gravità del reato, soprattutto nel caso di rei minorenni. Infatti, se l’intero percorso di giustizia riparativa viene concluso prima dell’inizio del processo, si può arrivare al punto di far decadere la prima udienza, perché magari la vittima ritira la querela o il giudice statuisce che non ci sono le condizioni per proseguire l’azione penale, perché il conflitto si è già risolto. A tale percorso possono accedere sia il reo che la vittima, in qualsiasi momento e grado del procedimento, oppure anche dopo la condanna. Il percorso di giustizia riparativa è gestito da enti specifici che organizzano e supervisionano l’attuazione dei programmi. Questi centri operano in collaborazione con le istituzioni giudiziarie su richiesta del giudice, dell’imputato o della vittima e in qualsiasi fase del procedimento penale. La riforma Cartabia del 2022, in Italia, ha reso questi percorsi accessibili gratuitamente a tutti e in maniera diffusa su tutto il territorio nazionale.

Approfondimenti alla sezione

Carcere, sovraffollamento, suicidi. Sotto i luogi comuni dell'emergenza

I numeri del carcere

Il 31 marzo del corrente 2024 i detenuti nelle carceri italiane erano 61.297; ma con una comprovata crescita media mensile di 330 unità, oggi, a metà luglio, avranno superato le 62 mila unità. Si tratta di un processo in decisa accelerazione. Se tra il 2020 e il 2021 l’aumento era stato di 770 unità, tra il 2021 e il 2022 era salito a 2.062, per registrare, tra il 2022 e il 2023, una crescita di 3.970 detenuti. Una tendenza che, se venisse confermata, ci porterebbe a 65 mila presenze a fine anno. Naturale corollario di tale fenomeno è la crescita del tasso di sovraffollamento, che, a fronte di una capienza regolamentare dichiarata di 5.1178 posti, risulta oggi del 120%; ma se si considera che i posti di fatto per vari motivi indisponibili sono 3.640, lo stesso tasso sale a quota 1251. Ma il dato nazionale si aggrava decisamente se consideriamo il valore dello stesso in alcune regioni. In Puglia siamo al 152%, in Lombardia al 144, in Veneto al 134. Per non parlare di alcune carceri, in cui il tasso di sovraffollamento giunge o tende al raddoppio: Brescia 209, Lodi 200, Taranto 185, Roma RC 181, e diverse altre situazioni simili. Abbiamo così superato i valori che, nel 2003, motivarono il cosiddetto «indultino». Ma si tratta di una tendenza che si ripete sistematicamente. Non appena le carceri si decongestionano per un qualche provvedimento, indipendentemente dal tenore dello stesso, la popolazione riprende sistematicamente a salire, anche sull’onda di un nuovo mediatizzato allarme sociale, secondo cui «le strade sono piene di delinquenti a piede libero». Così è stato dopo i provvedimenti deflattivi che sono seguiti alla condanna dell’Italia da parte della CEDU per la situazione delle nostre carceri, con la sentenza Torreggiani del 2013; così accade ora, dopo i provvedimenti, e soprattutto gli orientamenti della magistratura in occasione della recente pandemia. E ciò in modo del tutto indipendente dall’andamento della criminalità, che registra una costante decrescita. Si direbbe che le tendenze deflattive e riformatrici, anziché rappresentare un’inversione di tendenza in ambito penale e penitenziario, costituiscano paradossalmente la premessa per nuove tendenze restrittive e più decisamente repressive.

Carcere, sovraffollamento, suicidi. Sotto i luoghi comuni dell'emergenza

I numeri del carcere

Il 31 marzo del corrente 2024 i detenuti nelle carceri italiane erano 61.297; ma con una comprovata crescita media mensile di 330 unità, oggi, a metà luglio, avranno superato le 62 mila unità. Si tratta di un processo in decisa accelerazione. Se tra il 2020 e il 2021 l’aumento era stato di 770 unità, tra il 2021 e il 2022 era salito a 2.062, per registrare, tra il 2022 e il 2023, una crescita di 3.970 detenuti. Una tendenza che, se venisse confermata, ci porterebbe a 65 mila presenze a fine anno. Naturale corollario di tale fenomeno è la crescita del tasso di sovraffollamento, che, a fronte di una capienza regolamentare dichiarata di 5.117 posti, risulta oggi del 120%; ma se si considera che i posti di fatto per vari motivi indisponibili sono 3.640, lo stesso tasso sale a quota 125. Ma il dato nazionale si aggrava decisamente se consideriamo il valore dello stesso in alcune regioni. In Puglia siamo al 152%, in Lombardia al 144, in Veneto al 134. Per non parlare di alcune carceri, in cui il tasso di sovraffollamento giunge o tende al raddoppio: Brescia 209, Lodi 200, Taranto 185, Roma RC 181, e diverse altre situazioni simili. Abbiamo così superato i valori che, nel 2003, motivarono il cosiddetto «indultino». Ma si tratta di una tendenza che si ripete sistematicamente. Non appena le carceri si decongestionano per un qualche provvedimento, indipendentemente dal tenore dello stesso, la popolazione riprende sistematicamente a salire, anche sull’onda di un nuovo mediatizzato allarme sociale, secondo cui «le strade sono piene di delinquenti a piede libero». Così è stato dopo i provvedimenti deflattivi che sono seguiti alla condanna dell’Italia da parte della CEDU per la situazione delle nostre carceri, con la sentenza Torreggiani del 2013; così accade ora, dopo i provvedimenti, e soprattutto gli orientamenti della magistratura in occasione della recente pandemia. E ciò in modo del tutto indipendente dall’andamento della criminalità, che registra una costante decrescita. Si direbbe che le tendenze deflattive e riformatrici, anziché rappresentare un’inversione di tendenza in ambito penale e penitenziario, costituiscano paradossalmente la premessa per nuove tendenze restrittive e più decisamente repressive.

Una prospettiva di genere per l'alimentazione

Gli stereotipi socio-culturali, in particolare quelli di genere, hanno sempre influenzato e continuano a influenzare il nostro stile di vita. In questo senso l’alimentazione, uno dei principali e più importanti capisaldi della prevenzione, non fa eccezione. Chi, pensando a una grigliata di carne, non immagina l’uomo intento ad armeggiare intorno al fuoco, mentre la donna prepara la torta per i bambini e intanto mangia lo yogurt che, coi suoi miliardi di bifidobatteri, migliora la flora batterica intestinale? Senza voler necessariamente generalizzare, è questo il messaggio che la pubblicità ci trasmette, perché è questo lo stereotipo che fonda il nostro stile alimentare, ed è questo ciò che il mercato impone. Ciò che non emerge è che esistono differenze biologiche e fisiologiche tra i sessi, basate sulle loro differenze ormonali, che condizionano l’appetito, la digestione, il metabolismo e governano la biologia dei corpi. Tali differenze richiedono approcci nutrizionali diversi, che non sono tuttavia sufficienti a definire una prospettiva di genere dell’alimentazione, se non tengono conto delle norme e dei ruoli sociali attribuiti ai due sessi principali e non muovono dal riconoscimento delle molteplici identità, oltre la rigida distinzione tra maschile e femminile. Solo considerando le differenze biologiche definite dal sesso e quelle socio-culturali definite dal genere è possibile arrivare a una prevenzione «su misura» per il mantenimento dello stato di salute delle persone. Il nostro organismo ci avverte solo del bisogno di mangiare, ma non ci dice di cosa nutrirci. Ed è qui che subentra la società, dove il potere simbolico del cibo gioca una parte importante nel processo di potenziamento dell’identità di genere. Ciò che mangiamo non ha di per sé caratteristiche attribuibili alla femminilità o alla mascolinità, ma può legarsi a questo attraverso un discorso di controllo della società e di definizione degli individui che la compongono. Il consumo del cibo è strettamente connesso con le rappresentazioni sociali del corpo. Pensiamo agli uomini che svolgono lavori che li sottopongono a un continuo sforzo fisico: questi sviluppano un’attitudine verso il cibo che li porta a consumare pasti abbondanti, cibi pesanti, ricchi di carne e a elaborare una loro immagine di maschilità forte e virile. Ma la carne non è divenuta simbolo di virilità in virtù delle sue caratteristiche o in quanto sia preferita dalle persone di sesso maschile. Ha invece cominciato ad assumere questi significati perché all’interno di una determinata sfera socio-culturale è stata associata a un’immagine di mascolinità e di potere che prevede forza e superiorità economica. I maschi non hanno bisogno di mangiare carne, ma, assumendo un «cibo da uomo», rafforzano il proprio ruolo di genere. Il modello di corpo femminile imposto dalla società prevede invece il controllo su di esso e su ciò che può deviarlo dalla normalità socialmente riconosciuta in quel dato momento storico. È proprio attorno al rapporto con il cibo che storicamente si sono costruite le diverse rappresentazioni di femminilità, nel secolare tentativo di disciplinare il corpo femminile attraverso il culto della bellezza che passa inevitabilmente dal giudizio dello sguardo maschile, introiettato dalle donne di ogni epoca come parametro di valutazione di se stesse. Da sempre la donna ha avuto un legame inscindibile con gli alimenti e il loro consumo: è la prima nutrice, dal grembo al seno, al primo cucchiaino di pappa e in molti contesti familiari continua a essere colei che si preoccupa del nutrimento della famiglia. La storia ci ha raccontato che il posto della donna era in cucina e molti di noi sono cresciuti vedendo le proprie madri che preparavano la cena per quando papà tornava a casa. O per Natale le bambine ricevevano piccoli set da cucina di plastica con cui giocare. È un ruolo con una storia di oppressione a cui le donne sono state confinate da una struttura sociale patriarcale, che non si è risparmiata di imporre loro anche una misura nel consumo di cibo, misura che loro stesse hanno interiorizzato, determinando via via la loro alimentazione per sottrazione rispetto a quella dei maschi. In molte società alle donne venivano – e vengono ancora – riservati cibi considerati di seconda scelta o carenti dal punto di vista nutritivo nonostante non ci siano evidenze scientifiche in termini di minori energie spese dalle donne. Questo tipo di approccio alimentare imposto al genere femminile, improntato alla rinuncia e al controllo, e il ruolo sociale che le ha relegate nell’ambito domestico affidando loro tutte le pratiche legate alla nutrizione, le ha rese tuttavia più consapevoli sul piano dell’alimentazione, portandole a nutrirsi meglio rispetto al genere maschile, a cui è sempre stato concesso un comportamento più disinvolto nei confronti del cibo, oltre a un accesso migliore, quando non proprio privilegiato, anche in situazioni di precarietà sociale. Tutti gli studi sono coerenti nell’affermare che le donne tendono a essere semi-vegetariane, a prestare più attenzione ai prodotti della terra – frutta, verdura, legumi – tipici della dieta mediterranea, , notoriamente ricca di antiossidanti e quindi preventiva verso le cosiddette malattie del benessere, quali il diabete, le patologie cardiovascolari e i tumori. Gli uomini mangiano, invece, più carne. Questa distinzione è di fondamentale importanza perché da queste scelte dipendono la qualità e la quantità dei nutrienti che entrano nel nostro corpo e il loro impatto in termini di prevenzione e sviluppo di molteplici patologie. Ci sono molti esempi di come i gusti di uomini e donne sembrano differenziarsi e di come ci siano cibi considerati a seconda del sesso biologico e degli attributi di genere a esso legati: il gusto e il concetto di immagine di femminilità e mascolinità in una determinata società sono correlati e le scelte alimentari compiute dagli individui sono dettate anche da come la società vuole che essi appaiano. Il corpo maschile e quello femminile, intesi come costrutto sociale, hanno dei requisiti diversi costruiti su un sistema binario: se il primo deve essere forte e potente, e quindi mangiare carne, al secondo verrà chiesto di essere delicato e curato e di prediligere alimenti dolci, delicati e cremosi, aggettivi che rispecchiano l’essere femminile per la società. Lo stereotipo che l’uomo debba mangiare carne fonda le sue radici sul preconcetto che un elevato apporto di proteine nobili animali sia indispensabile alla formazione e al funzionamento dell’apparato osteo-muscolare e quindi alla rappresentazione dell’immagine di un organismo, quello maschile, forte e virile. Il tutto è condito dall’idea che sia proprio il testosterone, ormone sessuale androgeno, a richiederne un adeguato consumo. Se è in parte vero che il testosterone stimola la crescita dei muscoli negli esseri umani, diversi studi recenti hanno dimostrato come tale crescita non corrisponde a un aumento proporzionale della forza muscolare rendendo inutile un eccessivo consumo di carne. L’associazione tra carne e virilità e la convinzione che le proteine animali siano un elemento fondamentale della forza fisica sono pregiudizi che affondano le radici nel costrutto sociale della mascolinità egemonica, duro da scardinare, e che va indubbiamente oltre le scelte alimentari. Ciò che serve è un cambiamento culturale a cui possono contribuire scelte alimentari alternative che svincolano la carne – e qualsiasi altro alimento – dall’egemonia di genere. Ciò che introduciamo nei nostri corpi e il significato che andiamo ad attribuirgli sono un atto politico anche in termini di sostenibilità ambientale. La produzione di cibo, conseguente alle scelte alimentari quotidiane, infatti, impatta considerevolmente sull’ambiente essendo responsabile del 30% delle emissioni globali: il solo settore della carne contribuisce al 14% dei gas serra prodotti nel mondo. L’alimentazione è un marcatore sociale e può rappresentare un mezzo per ostentare benessere e disponibilità economiche, oppure essere la cartina di tornasole della povertà che presenta anch’essa un gap di genere. Nel mondo più di un miliardo di ragazze adolescenti e donne soffrono di denutrizione, di carenza di micronutrienti essenziali e di anemia, con conseguenze devastanti per il loro benessere e per la loro vita. Un’alimentazione inadeguata durante la vita delle donne e delle ragazze può portare a un indebolimento delle difese immunitarie, a uno scarso sviluppo cognitivo e a un rischio di complicanze durante la gravidanza e il parto con conseguenze irreversibili per la sopravvivenza, per la crescita e per il futuro dei loro figli. Mangiare costantemente meno di quel che serve equivale infatti ad azionare un interruttore per accendere o spegnere l’espressione di geni o gruppi di geni delle cellule, una sorta di memoria che viene trasmessa alle generazioni future influenzandone la salute. In questo senso nei Paesi a basso e medio reddito i sistemi di protezione alimentare, sociale e sanitaria andrebbero declinati in base al genere, dando la priorità all’accesso delle ragazze e delle donne a diete nutrienti, sicure, a prezzi accessibili, e accelerando l’eliminazione di norme sociali che discriminano il genere femminile, come i matrimoni precoci, l’iniqua condivisione del cibo, delle risorse, dell’accesso al credito, del reddito e del lavoro domestico. La difficoltà ad accedere a un cibo sufficiente e adeguato è un problema strutturale anche nel nostro Paese. Aumento della disoccupazione, riduzione dei salari, precarizzazione del lavoro e parallelo taglio della spesa sociale hanno portato all’intensificarsi dell’insicurezza alimentare nelle famiglie. La spesa alimentare è infatti più flessibile di altre spese essenziali e quindi più facile da ridurre, tagliando sulla quantità e/o qualità del cibo acquistato. La povertà alimentare, riflettendo le dinamiche di genere che caratterizzano l’economia domestica, si presenta con un volto di donna: sono le donne che sentono il dovere di rinunciare a determinati prodotti e di saltare i pasti per risparmiare e permettere ai figli e al resto della famiglia di mangiare. Sono soprattutto le donne che affrontano la vergogna e lo stigma sociale di rivolgersi ai centri di assistenza per chiedere aiuto. Il cibo è un diritto e non un bisogno e come tale andrebbe garantito ovunque attraverso misure di giustizia sociale che assicurino a ogni persona – a prescindere dal genere di appartenenza – le risorse necessarie ad avere una dieta sana e appropriata non solo sul piano nutritivo, ma anche sociale e culturale.

Conversazioni alla sezione

Conversazione con Giampietro (Nico) Berti

Giampietro (Nico) Berti (Bassano del Grappa, 1943) è considerato uno dei maggiori storici dell’anarchismo. Professore ordinario di Storia contemporanea in pensione, ha insegnato e fatto ricerca all’Università di Padova dal 1977 al 2012. I suoi campi di studio hanno spaziato dalla storia dell’anarchismo e del socialismo, al Risorgimento, alla Storia dell’Università di Padova e alla storia locale. Autore di decine di pubblicazioni, infaticabile organizzatore di convegni, incontri culturali e gruppi di lavoro, ha scritto: La dimensione libertaria di P.J. Proudhon (Città Nuova, Roma, 1982); Francesco Saverio Merlino. Dall’anarchismo socialista al socialismo liberale (1856-1930) (FrancoAngeli, Milano, 1993); Un’idea esagerata di libertà. Introduzione al pensiero anarchico (elèuthera, Milano, 1994); Il pensiero anarchico. Dal Settecento al Novecento (Manduria-Bari-Roma, 1998); Errico Malatesta e il movimento anarchico italiano e internazionale 1872-1932 (FrancoAngeli, Milano, 2003); Libertà senza Rivoluzione. L’anarchismo fra la sconfitta del comunismo e la vittoria del capitalismo (Lacaita, Manduria-Bari-Roma, 2012); Contro la storia. Cinquant’anni di anarchismo in Italia (1962-2012) (Biblion, Milano, 2016); Il principe e l’anarchia. Per una lettura anarchica di Machiavelli alla luce di una lettura machiavelliana dell’anarchismo (Rubbettino, Soveria Mannelli, 2023). Ha diretto il Dizionario biografico degli anarchici italiani (BFS, Pisa, 2003-2004) e curato gli scritti antologici di Bakunin, Kropotkin, Malatesta e Proudhon per le edizioni elèuthera (La libertà degli uguali; Scienza e anarchia; Il buon senso della rivoluzione; Critica della proprietà e dello Stato, varie edizioni). Attivista anarchico negli anni Sessanta e Settanta, ha collaborato alle riviste «A Rivista anarchica», «Volontà», «Libertaria» e alle edizioni Antistato ed elèuthera, partecipando alle attività del Centro Studi “Giuseppe Pinelli” di Milano e contribuendo ai Convegni internazionali su Bakunin, sui «Nuovi Padroni», «Venezia 1984». Questa intervista sviluppa, necessariamente, solo una parte dei temi affrontati nei suoi scritti.

Tassare i ricchi. Uno scambio su capitale, debito e futuro

Moderatori: Entrambi sembrate pensare che il sistema economico e finanziario prevalente abbia fatto il suo corso e non possa durare ancora a lungo nella sua forma attuale. Vi chiedo di spiegare perché.

Thomas Piketty: Non sono sicuro che siamo alla vigilia di un collasso del sistema, almeno non da un punto di vista puramente economico. Molto dipende dalle reazioni politiche e dalla capacità delle élite di convincere il resto della popolazione che la situazione attuale è accettabile. Se esiste un efficace apparato di persuasione, non c’è alcun motivo per cui il sistema non debba continuare a esistere così com’è. Non credo che fattori strettamente economici possano precipitare la sua caduta.Karl Marx pensava che il calo del tasso di profitto avrebbe inevitabilmente portato alla caduta del sistema capitalistico. In un certo senso, sono più pessimista di Marx, perché anche in presenza di un tasso di rendimento del capitale stabile, diciamo intorno al 5% in media, e di una crescita costante, la ricchezza continuerebbe a concentrarsi e il tasso di accumulazione della ricchezza ereditata continuerebbe ad aumentare. Ma, di per sé, questo non significa che si verificherà un crollo economico. La mia tesi è quindi diversa da quella di Marx e anche da quella di David Graeber. L’esplosione del debito, in particolare di quello americano, è certamente in atto, come abbiamo osservato tutti, ma allo stesso tempo c’è un grande aumento di capitale, un aumento di gran lunga superiore a quello del debito totale. La creazione di ricchezza netta è quindi positiva, perché la crescita del capitale supera anche l’aumento del debito. Non dico che ciò sia necessariamente una buona cosa. Sto dicendo che non esiste una giustificazione puramente economica per sostenere che questo fenomeno comporti il collasso del sistema.

Gabriel Kuhn in dialogo con Matthew Wilson

Matthew Wilson (MW): Ci siamo incontrati per la prima volta circa quindici anni fa, in occasione di un seminario universitario per discutere della tua raccolta di opere di Gustav Landauer. Quindici anni prima un evento del genere sarebbe stato quasi inimmaginabile, ma a quel tempo sembrava del tutto naturale e normale; l’anarchismo, sembrava a molti di noi, aveva sostituito il marxismo nei movimenti sociali, ma anche, sempre più spesso, nel mondo accademico. Voglio esplorare con te lo stato attuale dell’anarchismo, ma prima di arrivare a questo, vorrei chiederti di riflettere su quel primo decennio di ciò che Graeber e Grubacic hanno chiamato «il secolo anarchico»: all’epoca, condividevi l’idea che l’anarchismo stesse rapidamente sostituendo il marxismo come ideologia dominante della sinistra? E, comunque ti sia sentito in quel momento, come vedi ora quel periodo?

Internazionale alla sezione

Perché mutualismo e non comunismo?

Molte persone non sanno cosa sia il mutualismo o perché una persona che si oppone al capitalismo e allo Stato lo scelga al posto del comunismo o del socialismo democratico. Sebbene ci siano molte ottime risorse in circolazione, questo saggio spiegherà alcune nozioni di base. Che cos’è il mutualismo? Allacciate le cinture.

Cos’è il mutualismo

Il mutualismo è una forma di socialismo radicalmente decentralizzato e basato sul mercato. In un’economia mutualistica, le multinazionali non esistono, le imprese sono di proprietà collettiva delle persone che vi lavorano e i servizi pubblici (acqua, energia, internet, ecc.) sono di proprietà delle comunità che servono. E, naturalmente, chiunque voglia lavorare per se stesso è libero di farlo.
Sia le imprese che i servizi pubblici sono gestiti democraticamente dai lavoratori sulla base della gestione paritetica, proprio come fanno migliaia di cooperative di proprietà dei lavoratori già esistenti. Nel caso dei servizi pubblici, la comunità servita decide cosa fare e i lavoratori decidono come farlo. In effetti, i mutualisti americani sono stati i primi promotori del movimento per le imprese cooperative di proprietà dei lavoratori e il successo di queste imprese - che pagano costantemente salari migliori, hanno condizioni migliori e restituiscono di più alla comunità - è una conferma della validità della prassi mutualistica. Molte migliaia di persone della classe operaia hanno una vita migliore grazie a questa eredità.
Non essendoci padroni o azionisti, i lavoratori possono pagare l’intero valore che il loro lavoro produce. Come dice Connolly, «i profitti sono i salari non pagati della classe operaia». I capitalisti chiamano questi salari non pagati «plusvalore» e il furto sistematico di questo plusvalore dalla classe operaia è uno dei grandi crimini del capitalismo. Nel mutualismo si pone fine al furto sistematico del plusvalore da parte dei capitalisti.
Invece di affidarsi ai capitalisti per il capitale iniziale delle nuove imprese, i mutualisti si sono tradizionalmente affidati alle cooperative di credito - Proudhon ha effettivamente inventato le prime cooperative di credito e altri mutualisti hanno perfezionato notevolmente l’idea partendo da lì. In effetti, la prevalenza delle Credit Union in Nord America (dove il mutualismo è tradizionalmente più forte) è un’eredità del mutualismo. Noterete che molte delle più grandi cooperative di credito sono di proprietà dei sindacati, e non è una coincidenza. Un tempo la Western Federation of Miners (uno dei sindacati che si sono fusi per formare l’IWW) possedeva un’intera rete di negozi e linee di rifornimento, gestite come cooperative mutualistiche, per assicurarsi che i minatori avessero accesso a cibo fresco di buona qualità anche nelle città minerarie più remote e per mantenere la gente in salute durante gli scioperi. In questo, e in molti altri esempi, le tattiche e le strutture mutualistiche e sindacali sono state storicamente complementari e di reciproco supporto.
Tornando alle cooperative di credito, le prime cooperative di credito mutualistiche sono state create per consentire ai lavoratori e agli artigiani di mettere insieme i fondi e fornire finanziamenti per avviare nuove imprese di proprietà dei lavoratori o per acquistare e convertire quelle esistenti. In questo modo, i mutualisti speravano di acquistare letteralmente i mezzi di produzione dai capitalisti e di soppiantarli, senza dover mai sparare un colpo o versare una goccia di sangue.
Nel mutualismo la forma più importante - e l’unica valida - di organizzazione sociale è il contratto o l’accordo volontario e reciprocamente vantaggioso, stipulato liberamente da due o più persone. Una volta raggiunto, l’accordo è vincolante, ma nessuno può essere reso parte di un accordo senza il proprio consenso. L’idea dei contratti liberi ridisegna tutto il resto, perché obbliga a riprogettare tutte le istituzioni sociali sulla base di unioni volontarie.

Cos'è l'eco-anarchismo?

«L’Umanità è la Natura che prende coscienza di se stessa».
Élisée Reclus (Clark and Martin 2013)

L’eco-anarchismo è la forma di ecologia politica che colloca il politico più profondamente nella storia e nella crisi della Terra. Ritiene che il nostro futuro e quello del pianeta dipendano dalla capacità di compiere il nostro destino come mezzo attraverso cui la Terra pensa e agisce per il bene comune di tutti gli esseri. Questa è la visione sviluppata dal geografo e filosofo francese del XIX secolo Jacques Élisée Reclus (1830-1905), il fondatore del moderno pensiero eco-anarchico (Clark e Martin, 2013). È stato il primo pensatore a concepire in modo dettagliato la storia della Terra come lotta per la libera fioritura dell’umanità e della natura e contro le forze di dominio che limitano tale fioritura. Questa è la visione che viene portata avanti oggi dalla tradizione eco-anarchica.
Il significato centrale dell’eco-anarchismo è evidente dall’etimologia del termine. Deriva dal greco antico oikos, che significa «famiglia» o «casa», e anarche, da ana-, che significa «senza», e arche, che significa vagamente «regola», «principio» o più precisamente «dominio». Inoltre, è una forma abbreviata di «anarchismo ecologico» e quindi presuppone un terzo termine, logos. Il logos di qualsiasi essere è la via e la verità di quell’essere, il suo modo di raggiungere il bene. L’eco-anarchismo rispetta quindi profondamente il logos dell’oikos, il suo ordine immanente e il suo autosviluppo, e cerca di difenderlo da ogni arche o forma di dominio.
Ma cos’è il nostro oikos? L’oikos è un tipo di comunità, in particolare quella che identifichiamo come la nostra casa. L’eco-anarchismo è quindi una forma di comunitarismo nel senso più forte del termine. Riconosce che siamo membri di comunità all’interno di comunità. I nostri oikoi comprendono la comunità intima primaria della famiglia e la piccola cerchia di amici stretti. Includono anche le nostre comunità locali e regionali, sia umane che più-che-umane. E comprendono, infine e soprattutto, l’oikos di tutti gli oikoi, la nostra casa globale, il nostro pianeta-casa, la Terra.
L’eco-anarchismo sostiene che dobbiamo iniziare con la massima urgenza a trasformarci in membri pienamente responsabili della Casa Terra. Tale vocazione è «eco-anarchismo» in quanto esprime un impegno ecologico primario a promuovere la fioritura della comunità terrestre e un impegno anarchico primario a difendere tale fioritura da tutte le forze distruttive che vorrebbero schiacciarla ed estinguerla.

John Dewey e David Graeber. Elementi di democrazia radicale nel pensiero pragmatista e anarchico

Quando si pensa all’idea di democrazia radicale, gli scritti di John Dewey non sono probabilmente il primo esempio che viene in mente. Il suo concetto di democrazia è stato invece spesso liquidato come «liberale» (Talisse 2007) o come un primo esempio di democrazia deliberativa (cfr. Bacon 2010). A fronte di queste nozioni, in questo articolo voglio esplorare la natura radicale della narrazione deweyana della democrazia. La mia tesi principale è che gli elementi radicali vengono in primo piano se analizziamo il concetto di democrazia di Dewey nel suo contesto storico. Questo può aiutarci a capire il suo concetto di democrazia radicale per quello che era: un intervento nel dibattito sul ruolo della democrazia per la sinistra. Partendo da questi presupposti, sviluppo e difendo la tesi che l’idea di democrazia di Dewey è radicale nella misura in cui è stata concepita contro una concezione marxista ortodossa della rivoluzione e della trasformazione sociale. L’articolo si conclude delineando come questo rifiuto del marxismo ortodosso avvicini Dewey a un resoconto anarchico della democrazia radicale, così come è stato recentemente formulato da David Graeber (2013), ed evidenziando i parallelismi tra i concetti di democrazia radicale di Dewey e di Graeber per quanto riguarda la priorità dei mezzi sui fini, il ruolo della deliberazione e la necessità di una riforma istituzionale.

Radici alla sezione

George Orwell

Il modo in cui sono oggi valorizzati gli scritti di George Orwell (nom de plume di Eric Arthur Blair, nato in India nel 1903 e morto a Londra nel 1950) e la sua figura di intellettuale offre spunti di riflessione preziosi per chi ha a cuore la critica dell’esistente e una definizione politica della libertà. Su questo sforzo pesa però una serie di pregiudizi frequenti quando sotto la lente finiscono i classici universali, quali indubbiamente sono Fattoria degli animali (1945) e 1984 (1949). Questo tipo di opere, infatti, è spesso ridotto a una manciata di icone strappate dal loro contesto e lette in pericolosa sintonia con la mercificazione dei prodotti culturali da parte dell’industria dell’intrattenimento. Si ricordi che, divenendo format di un reality televisivo, proprio il personaggio del Grande Fratello inaugurava venticinque anni fa la «cross-medializzazione» banalizzante dei testi letterari cui siamo ormai assuefatti, per cui, oltre a essere tradotti in sceneggiati radiofonici o film, questi diventano oggetto di riprese libere e private del loro potenziale critico da parte di chi commercializza lo storytelling più accomodante attraverso serie televisive, videogiochi, comunità di fan online, parchi turistici, linee di gadget, etc. L’esito è che il senso di libri e autori è derubricato come già noto, in anticipo su qualsiasi approfondimento, men che meno politico, e questo li sottrae all’interpretazione nel presente, permettendo a chiunque ne abbia l’arroganza di citarli senza conoscerli. Così, il «profeta» Orwell in Italia batte di gran lunga Voltaire e Pasolini come l’intellettuale più spesso citato a vanvera da demagoghi, fascisti e complottisti, gli stessi contro cui Orwell stesso non esitò a imbracciare il fucile. Una nemesi che invita a ripensare con urgenza il ruolo della cultura e le funzioni dello studio nella «società delle piattaforme».
Il filo rosso fra questa deriva e la lotta al totalitarismo che animò tutta la vita di Orwell si annoda intorno al concetto di verità e alla difesa di quest’ultima contro la propaganda del potere. D’altro canto, l’atteggiamento franco e demistificatorio è già evidente negli anni della formazione, prima al St Cyprian, poi a Eton, il college più prestigioso di Inghilterra, dove Orwell accede grazie a una borsa di studio. Senza di questa, la famiglia, benestante ma non troppo – la madre è figlia di un commerciante francese di legname dalla Birmania, il padre è ufficiale in Birmania per il Dipartimento Oppio dell’impero inglese – non avrebbe potuto permettersi l’iscrizione. Ma Orwell non tarda a scontrarsi col preside e abbandona gli studi per arruolarsi nella polizia imperiale. Staziona in Birmania dal 1922 al 1927, e quando abbandona la divisa dedicandosi a una scrittura impegnata in difesa degli ultimi – si veda il saggio Perché scrivo (1946) – egli reagisce in primo luogo alle mistificazioni della retorica con cui la corona giustifica le rapine dell’agenda colonialista. A tal riguardo scrive un romanzo (Giorni in Birmania, 1934) e alcuni articoli che a oggi circolano poco, sebbene anticipino le sensibilità degli studi postcoloniali puntando l’indice sulla sudditanza psicologica dell’oppresso, la nocività parassitica dei collaborazionisti e l’intossicamento identitario che la retorica imperialista induce nei pukka sahib, gli «uomini bianchi» che operano a livello militare, burocratico o imprenditoriale negli insediamenti coloniali. Di questi Orwell denuncia l’asservimento al suprematismo inglese che, se da una parte legittima le loro violenze sulle popolazioni indigene, dall’altra li costringe a fingersi superiori quando sanno benissimo di non esserlo, sviluppando una sorta di doppio-pensiero schizofrenico che prefigura quello tematizzato in 1984.
È questo l’Orwell più attuale e avvincente, quello che mette a nudo le contraddizioni psicologiche con cui formuliamo le nostre idee di verità e di normalità, troppo spesso obliterando i condizionamenti economici e del potere. Sono in tal senso irrinunciabili i suoi reportage autobiografici: Senza un soldo a Parigi e a Londra (1933), resoconto in tonalità punk di un periodo passato come sguattero e barbone; La strada di Wigan Pier (1937), ritratto etnografico della classe operaia inglese; Omaggio alla Catalogna (1938), disanima della sua esperienza di volontario in Spagna dove accorre per difendere la repubblica dal colpo di stato franchista, fermare l’avanzata dei fascismi europei e supportare una rivoluzione socialista, ma poi finisce per denunciare la repressione stalinista che avversa questa opzione per ragioni di equilibrismo sullo scacchiere internazionale. Dopo la grande delusione spagnola Orwell scrive il suo romanzo più bello, Una boccata d’aria (1939), una critica della modernità capitalista sospesa fra nostalgia swiftiana e ironia anarchica, lo stesso passatismo apocalittico che ispirerà i già citati capolavori della maturità: la favola Fattoria degli animali e la fantascienza di 1984.
Resta infine assurdo identificare nel socialismo l’arcinemico totalitario di questi libri. È il rigore e l’efficientismo moderno, assieme all’automazione dei processi produttivi e all’omologazione culturale e sociale, il Moloch contro cui Orwell chiamò a reagire contrapponendovi la decency, termine con cui condensava semplicità, franchezza, sobrietà e generosità. Fino alla fine dei suoi giorni, quando stilerà un elenco di diritti inalienabili per la nascente «Lega per la libertà e la dignità dell’uomo», egli insisterà sulla promozione di organismi sociali che proteggano gli individui senza interferire con la loro libertà, ritenuta il più sacro dei patrimoni umani.

Emma Goldman

«Se non posso ballare, non è la mia rivoluzione»: è questa, di certo, la citazione più conosciuta di Emma Goldman. Per l’esattezza, come probabilmente non molte e molti sanno, Goldman non ha mai pronunciato o scritto queste esatte parole, tuttavia esse riassumono sagacemente un episodio significativo della sua vita. Secondo quanto racconta all’interno della propria autobiografia, una sera un compagno la rimprovera per la passione che nutre verso il ballo, una caratteristica da lui ritenuta frivola e inadatta a una militante anarchica. Goldman, furente di rabbia, gli risponde: «Voglio la libertà, il diritto all’espressione di sé stesse e sé stessi, il diritto di ognuna e ognuno alle cose belle e radiose». Dal canto suo, infatti, è fermamente convinta che la causa dell’anarchismo non esiga la rinuncia alla gioia, bensì esalti il desiderio di un’esistenza piena e appagante, libera da ogni forma di oppressione e dominio. Oltre a racchiudere il fine e il significato più profondo delle lotte libertarie di ieri e di oggi, questo aneddoto offre degli spunti interessanti per ripercorrere la vita e il pensiero di Emma Goldman e per interrogarsi su come quest’ultimo si possa applicare alle necessità del tempo presente. Nata nel 1869 a Kovno, nei territori dell’Impero russo, in una famiglia ebraica, all’età di sedici anni Goldman parte alla volta degli Stati Uniti. A New York inizia ad avvicinarsi agli ambienti anarchici e ben presto diventa una delle personalità più carismatiche del movimento. In quanto «donna più pericolosa d’America» – così come la definiscono le autorità –, nel tempo giunge a pagare il prezzo dei propri ideali con il carcere e l’esilio. Dopo essere stata deportata in Russia, ha modo di osservare da vicino le conseguenze della Rivoluzione di ottobre: nonostante l’entusiasmo iniziale, nel corso degli anni rimane profondamente delusa dalle pratiche di accentramento e repressione attuate dal governo bolscevico, tanto da schierarsi apertamente contro di esse. Questo perché Goldman ritiene che le istanze rivoluzionarie non possano prescindere dalla rivendicazione del diritto di autodeterminazione degli individui. Infatti, una delle convinzioni più importanti alla base delle sue idee politiche e delle sue scelte di vita è che la liberazione individuale rappresenta non solo un fine in sé, ma anche un passo cruciale verso un radicale mutamento della società. Più nello specifico, anticipando alcune delle riflessioni sulle quali si fonda il noto slogan femminista «il personale è politico», Emma Goldman afferma che la creazione di un nuovo ordine sociale deve partire dall’emancipazione delle singole persone. Sostiene, infatti, che la schiavitù causata dal Capitale, dallo Stato e dalla Chiesa si manifesta tanto negli aspetti materiali quanto in quelli più intimi della vita quotidiana, creando un fitto intreccio di subdole costrizioni.
Riconoscendo, dunque, la multiforme e complessa natura del dominio, Goldman si batte con lo stesso fervore su più fronti, adottando un approccio che oggi definiremmo intersezionale. All’interno dei saggi e degli articoli da lei scritti e nel corso dei suoi numerosi comizi, le parole diventano un’arma per contrastare la guerra, la leva militare e le istituzioni carcerarie e per rivendicare, al contempo, i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori e la libertà delle donne.
Tra tutte le sue battaglie, quest’ultima rappresenta di gran lunga il suo contributo più innovativo. A differenza del resto del movimento anarchico – convinto che le disuguaglianze tra i sessi si possano risolvere solamente con un cambiamento sistemico – e delle femministe della prima ondata – decise a conquistare il suffragio femminile –, Emma Goldman sostiene che la liberazione delle donne dipende anzitutto da un processo di rigenerazione interiore. Infatti, nessun miglioramento sul piano economico-sociale o politico può renderle completamente libere, se la loro intimità rimane intrappolata all’interno di barriere fatte di convenzioni e pregiudizi moralistici. In un sistema che subordina le donne agli uomini, l’amore viene soffocato e il sesso viene inteso solamente come parte del vincolo matrimoniale, all’interno del quale i suoi unici fini sono il compiacimento dei mariti e la procreazione di figlie e figli. Oltre a ciò, la capacità riproduttiva delle donne viene sfruttata, da un lato, per produrre nuove generazioni di forza-lavoro con lo scopo di arricchire le tasche del capitalismo e, dall’altro, per rimpolpare le file dei militari pronti a difendere la patria. Per questi motivi, Goldman ritiene fondamentale che ogni donna si riappropri della sua sessualità e dei suoi sentimenti, prendendo coscienza della propria persona e delle sue molteplici possibilità. Come? Pur riconoscendo la singolarità delle esperienze individuali, Emma Goldman invita le donne a trasformare le proprie relazioni in uno spazio di lotta, amando senza restrizioni, scegliendo autonomamente i propri partner e decidendo in libertà se e quando rimanere incinte. Inoltre, al fine di spezzare le catene che le legano ai ruoli di mogli e madri, Goldman ritiene che la contraccezione rappresenti uno strumento molto utile. È per questo che decide di attivarsi per promuovere in prima persona il controllo delle nascite, dapprima contrabbandando contraccettivi e successivamente dando vita a un vero e proprio movimento di massa, il Birth Control Movement.
Ad oggi sono trascorsi ottantaquattro anni dalla sua morte, ma la sua «furiosa passione di vivere» brilla ancora come un faro in un orizzonte plumbeo. Di fronte a problemi sistemici di portata globale, Emma Goldman ci ricorda l’importanza del contributo di ciascun individuo nel qui e ora. Non saranno, infatti, utopie astratte o rigidi programmi a determinare il cambiamento della società, ma intime rivoluzioni in ognuna e ognuno di noi, nel modo di pensare e pensarci, continuando a seguire con fiducia gli ideali di libertà.

Ricordando Colin Ward

Il 14 agosto di quest’anno Colin Ward avrebbe compiuto cento anni. Nato il 14 agosto del 1924 e morto l’11 febbraio del 2010, l’anarchico inglese è il principale ispiratore di questa rivista. A lui abbiamo dedicato un profilo nella rubrica «Radici» nel numero 2 del 2022 (giugno), a cui rinviamo per una prima introduzione alla sua vita e al suo pensiero.
Le sue riflessioni, così come i suoi articoli e i suoi libri, costituiscono un riferimento continuo per la redazione di «Semi sotto la neve» e sono forieri di stimoli sempre attuali per chi, come noi, cerca, molto modestamente, ma tenacemente, di vivere un’idea libertaria in modo nuovo e propositivo.
Per ricordarlo ancora una volta, e non sarà l’ultima, vi proponiamo alcune frasi tratte dai suoi scritti, particolarmente significative, che, dal nostro punto di vista, si prestano maggiormente a essere utilizzate e interrogate al fine di delineare un’idea anarchica alla quale facciamo idealmente riferimento.
Colin Ward si è occupato di molti temi, oltre che di anarchismo, come l’educazione, l’urbanistica e l’architettura. Per chi volesse approfondire poi maggiormente il suo pensiero pubblichiamo una bibliografia dei testi tradotti in italiano e disponibili. Per cogliere l’evoluzione della sua vita e del suo pensiero suggeriamo la lettura del volume curato da David Goodway: Colin Ward, Lo sguardo anarchico, elèuthera, Milano, 2021.

Recensioni alla sezione

Parlando di economia, anarchia e cattolicesimo

Il mio libro «Economia e persona tra pensiero libertario e pensiero cristiano» (FrancoAngeli, 2024) propone un confronto fra pensieri, quello libertario-anarchico e quello della teologia sociale della Chiesa cattolica. Pensieri che possono essere lontani o vicini tra loro nel trattare della persona e dell’economia, ma che sono comunque accomunati dal coprire posizioni minoritarie nell’economia, nella politica e nella religione. Pensieri che invece meriterebbero entrambi maggiore attenzione, sia essa di approvazione oppure di critica. Comunque non dovrebbero essere ignorati.
Leo Ferré è un cantautore monegasco anarchico citato da Andrea Riccardi (Riccardi 2022), il fondatore della comunità di Sant’Egidio, per la canzone Monsieur tout blanc, che critica papa Pio XII. Ferré in Les Anarchistes apre la canzone con un verso provocatorio, ma vero: coloro che sostengono l’idea anarchica «non sono l’uno per cento, ma credetemi esistono». E prosegue con l’indicazione che gran parte di loro sono in Spagna, chiedendosi in maniera retorica «chi lo sa mai perché», dato il ruolo importante che gli anarchici ebbero in Spagna dal 1936 al 1939 (Cuevas Casaña, Gálvez Muñoz, Torró Gil, 2023). Per analogia, si potrebbe affermare che coloro che sostengono l’idea della Dottrina Sociale della Chiesa «non sono l’uno per cento, ma credetemi esistono». E si potrebbe proseguire con un’affermazione – più intuitiva che documentabile – che la grande parte di loro non sono nella Chiesa, ancora chiedendosi «chi lo sa mai perché».
Il libro si sviluppa partendo dalla constatazione che nei pensieri libertario e cristiano ricorrono tre idee «grandiose»: libertà, governo e diversità.
La Bibbia indica la libertà come un valore primario: la libertà di Israele nell’Antico Testamento e la libertà annunciata da Cristo nel Nuovo Testamento. L’idea libertaria si compendia bene nell’affermare «un’idea esagerata di libertà», come la definisce Giampietro N. Berti (Berti 2015) con una felice espressione, che vuol essere di apprezzamento, non di critica. Ma è anche Karl Popper che afferma: «L’anarchismo è un’esagerazione dell’idea di libertà», mentre è Bakunin stesso che si confessa: «Sono un amante fanatico della libertà» (Bakunin e Popper in Bertolo 2017: 81). Il Vangelo e il pensiero libertario, dunque, si concretano entrambi nel rifiuto di ogni potere dominante terreno, anche quello specifico di un governo. La volontà dell’anarchico di «Né ubbidire, né comandare» risuona nel ritornello del «Canto dei malfattori», testo di Attilio Panizza: «liberi vogliam vivere, più non vogliam servir», che troviamo riportato in copertina del libro di Miro Gori (Gori 2022). Il Vangelo, dal suo canto, evoca il dominio come modo di praticare il potere, per suggerirne invece l’opposto: «Voi sapete che i governanti delle nazioni dominano su di esse e i capi le opprimono. Tra di voi non sarà così» (Mt 20). L’idea dell’anarchia di negare il governo espressione di uno Stato-nazione è nota, ma è spesso riferita superficialmente e sovente distorta, poiché in effetti è ben più articolata e complessa di una semplice negazione. Il libro si sofferma su questa idea, passando dal pensiero classico al pensiero post-classico dell’anarchia, con riferimento a Gustav Landauer. Per Landauer «la rivoluzione non era un atto, ma un processo, che conteneva una dimensione spirituale orientata a una vasta riforma intellettuale e morale» (Ragona in Landauer 2012: 18-19). Dunque, un processo «lento» che si realizza dal basso con un’autogestione diffusa e progressiva di forme simili a cooperative. Recentemente, Francesco Codello ha riassunto in questi termini il pensiero di Landauer: «Lo Stato non è qualcosa che può essere distrutto attraverso una rivoluzione, ma è una condizione, un certo tipo di rapporto tra gli esseri umani, un tipo di comportamento; lo possiamo distruggere creando altri rapporti, comportandoci in modo diverso» (Codello 2022: 110 e 112). In pratica, si tratterebbe di lasciare a una miriade di comunità, su scala quanto mai variata (Bookchin 2017), comunque federate, la capacità di esprimersi su problemi concreti di cui alcuni con dimensioni locali e altri con dimensioni più generali (Graeber 2020). Quando, posti di fronte a problemi generali, potrebbe anche riapparire lo Stato: «Se nel periodo pre-rivoluzionario è sufficiente negare ideologicamente lo Stato, nel periodo post-rivoluzionario bisogna sostituirlo positivamente [per] quelle funzioni generali di coordinamento della società civile che lo Stato trasformava in dominio» (Berti 1979: 87). In un recente dialogo tra gli anarchici Matthew Wilson e Gabriel Khun apparso in questa rivista (2024, n. 7), Wilson getta sul piatto proprio il tema dello Stato con questa riflessione: credo che la «pandemia abbia contribuito a consolidare in alcuni la sensazione che l’anarchismo [classico] abbia i suoi limiti e che gli Stati siano necessari per momenti come questo, se non altro. La gente ha già dimenticato l’aiuto reciproco che ha permesso di sfamare le persone quando lo Stato e il mercato non riuscivano a tenere il passo, ma nessuno dimenticherà la creazione dei vaccini, i programmi di sperimentazione a livello nazionale, persino il potere dello Stato di imporre i lockdown», così come c’è necessità di uno Stato per affrontare i problemi generali del cambiamento climatico. Khun reagisce affermando: «Ma che cos’è lo Stato? [Oltre alla pandemia e alla crisi climatica] è sufficiente guardare ai compiti quotidiani di cui dobbiamo occuparci collettivamente, produzione e distribuzione del cibo, servizi sanitari, trasporti, energia e via di seguito […] che richiedono istituzioni in qualche modo centralizzate, ma queste istituzioni devono per forza assomigliare a uno Stato? Non credo» (Wilson 2024).
Lo Stato immaginato da Landauer nel 1895, anticipato da Berti nel 1979 e recentemente concretizzato da Wilson (2022) e da Khun (2018) è pur tuttavia un’idea che non contrasta con le affermazioni dell’anarchia classica dello stesso Kropotkin. Nel 1892, egli rilevava l’efficienza dei salvataggi in mare della British Life-Boat Association, affermando la migliore capacità, rispetto alle navi di Stato, di questa libera autogestione nel salvare in mare vite umane. Però, mentre l’associazione muove persone che, motivate dal mutuo soccorso, volontariamente porgono aiuto, tuttavia – continua Kropotkin – essa richiede le infrastrutture dello Stato, porti sicuri e aperti, per completare il salvataggio (Kropotkin 1978). Cionondimeno, lo Stato cui queste idee si riferiscono è totalmente diverso da quello che conosciamo, tanto da poterlo chiamare con altro nome: Consiglio, Confederazione, Comune o Comunità, con diverse specifiche territoriali. In questo caso, mutare denominazione potrebbe non essere solo questione nominale (Candela, Senta 2017; Candela 2021). Anche nell’anarchismo di Buber (Buber 1950), che continua il pensiero di Landauer dopo la sua morte violenta, la rivoluzione verso una società senza Stato parte da una cooperazione dal basso per il consumo e per la produzione, quindi dalla modifica nel sentire di persone capaci di realizzare, con la «saggezza» di liberi accordi e mutuo sostegno, un’istituzione di comunità tutt’affatto diversa dallo Stato-nazione.
Il discorso, tuttavia, è complesso, perché una tale rivoluzione di cultura non è facile da realizzare, infatti può incontrare forti resistenze dato che implicherebbe l’estinzione dello Stato-nazione. Uno dei primi presidenti degli USA affermò: «Lo Stato esiste per educare il saggio, e con la comparsa del saggio lo Stato muore. Quando appare il [saggio], lo Stato non è più necessario» (Emerson 2012: 89). Allora, è lo Stato stesso che potrebbe «ostacolare» il processo di trasformazione. Come si può opporre ogni gruppo dominante che voglia resistere alla perdita di un dominio che esercita per tramite dello Stato. In ogni modo, sono sempre gli incentivi impliciti nel capitalismo che, alimentando l’egoismo e non l’altruismo, creano assuefazione alla logica dell’Io piuttosto che alla logica del Noi (Candela 2021). La marcia verso un traguardo diverso è un percorso con ostacoli posti dallo Stato: l’idea dell’anarchismo nei confronti del ruolo dello Stato si può anche modificare con l’anarchismo post-classico, ma questa attenta riflessione dell’anarchia classica non perde di valore.
Proprio sul tema di un potere dominante che si concretizza nello Stato, il libro intende annotare «curiosi» punti di intersezione fra le Sacre Scritture e alcuni brani libertari e anarchici. Due sono le eco ricordate nel libro. Una prima eco è fra le encicliche di alcuni papi medievali e gli scritti di molto successivi di Proudhon (abbiamo tratto questa indicazione da Alessandro Barbero) – scriveva Gregorio VII: «i re e i duchi hanno […] preteso di dominare i loro pari, gli uomini, con cieca avidità e intollerabile presunzione» (Barbero 2016: 10). Una seconda eco si riscontra nelle prerogative di potere indicate da Samuele nell’Antico Testamento, quando mette in guardia gli ebrei dal volere un re, e la citatissima definizione di Stato che è di Proudhon (Candela 2023): abbiamo tratto questa indicazione da Rutger Bregman (Bregman 2020). Infatti è noto che Proudhon ben conosceva le Sacre Scritture – abbiamo tratto questa indicazione dal cardinale de Lubac (2017), studioso di Proudhon.
A queste due eco esplicitamente sviluppate nel libro – cui rinviamo – vorremmo aggiungerne una terza che proviene dal Vangelo di Matteo. Sono le parole di Gesù verso l’agire degli scribi e dei farisei che occupano la cattedra di Mosé: «Dicono e non fanno. Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito. Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini […,] amano posti d’onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe e i saluti nelle piazze, come anche sentirsi chiamare “rabbi” dalla gente» (Mt, 23). Questa è una descrizione del «politico» che potrebbe essere condivisa da ogni anarchico (si pensi a Kropotkin), ma anche da ogni liberale (si pensi a von Hayek) – che ha tanti riscontri nel sistema politico del presente. Infatti, Kropotkin scrive: «La legge [dei governi …] ne approfitta per introdurre, generalmente dissimulandola, qualche nuova istituzione nell’interesse della minoranza dei governanti e degli uomini di parte» (Kropotkin 1952: 70); e Hayek sostiene che: «Se la democrazia diviene sinonimo di governo della maggioranza dotato di potere illimitato, io non sono democratico e considero anzi un tale governo pernicioso» (Hayek 2000: 413).
La Dottrina Sociale della Chiesa, pur se a volte «dubita» dello Stato, più spesso continua a chiamarlo in causa auspicando una sua azione sociale. Sarebbe bene, allora, soffermarci sulla differenza fra i due pensieri quando si rivolgono al ruolo dello Stato. Da una parte permane la fiducia della Dottrina Sociale della Chiesa che possa esistere uno Stato che non sia impersonato da scribi e farisei, ma da persone che perseguono il bene comune, fiducia che si scontra con la convinzione dell’anarchico che il governo di uno Stato non possa che essere impersonato da scribi e farisei. In economia queste visioni si traducono nella contrapposizione fra uno Stato a volte benevolente e uno Stato sempre di parte.
Il terzo importante elemento di raffronto da cui siamo partiti è la diversità, non solo come sentimento di tolleranza ma come vera ricchezza di una comunità. Un’idea che è sia nel programma dei Gruppi anarchici federati, negli anni Settanta del Novecento (G.A.F. 1976), sia nel documento sulla fratellanza firmato nel 2019 congiuntamente da papa Francesco e dal Grande Imam di Al-Azhar, prima dell’enciclica Fratelli Tutti. Per i GAF alla «stereotipata uniformità dei ruoli si sostituisce la diversità naturale nella più completa uguaglianza», analogamente per padre Alex Zanotelli il documento della fratellanza sostiene la «libertà di essere diversi» (Zanotelli 2022): «La libertà è un diritto di ogni persona: ciascuno gode della libertà di credo, di pensiero, di espressione e di azione […] la libertà di essere diversi. Per questo si condanna il fatto di costringere la gente ad aderire a una certa religione o a una certa cultura, come pure di imporre uno stile di civiltà che gli altri non accettano» (Documento sulla fratellanza umana. Per la pace mondiale e la convivenza comune, 2019). In entrambe le fonti si afferma che la «diversità», intesa come confronto senza scontro, come tolleranza senza confusione di valori, è un’altra parola che accomuna l’anarchia e la religione. Il tutto senza mai sottovalutare come questa liaison parta da fondamenta del tutto diverse tra loro per l’idea ispiratrice, come peraltro era già evidente a proposito delle parole libertà e governo. Infatti, il libro invita più volte a riflettere sul dato di fatto che non dobbiamo mai dimenticare: i due pensieri presentano punti di partenza diversi. Il pensiero cristiano ha il suo fondamento teologico in un Dio che, per amore, ha creato uomo e donna destinati a una vita che si realizza con gli altri. Il pensiero libertario ha il suo fondamento immanente nella «morale della solidarietà» di Kropotkin (Kropotkin 2017) e Errico Malatesta (Malatesta 1975), che si realizza in una vita con gli altri, in liberi accordi che non abbisognano dello Stato, almeno di uno Stato che ha il monopolio legale della violenza (nell’interpretazione di Weber 1965, 1997). Sono fondamenti distanti fra loro, ma che si intersecano, avvicinandosi, in un’economia dove la persona acquisisce un’etica, una cultura che accantona competizione e logica dell’Io per agire secondo cooperazione e logica del Noi. Per fare il punto su questa distanza o vicinanza, possiamo richiamare quanto espresso nella lettera che don Lorenzo Milani scrive al comunista Pipetta: «il giorno che avremo sfondata insieme la cancellata di qualche parco, installata insieme la casa dei poveri nella reggia del ricco, ricordatene Pipetta, non ti fidar di me, quel giorno io ti tradirò» (Milani 1950). Padre Ernesto Balducci chiude il pensiero di don Milani, con un’idea molto vicina a quella anarchica; la libera educazione è importante, ma la liberazione passa anche per l’avversione all’economico e al politico, allorché l’economia diviene sfruttamento e la politica diviene dominio (Balducci 2002).
Dunque, la logica del Noi è indicata dal libro come un’intersezione di rilievo tra i pensieri libertari e cristiani, logica che si riscontra qualora la logica di comunità sia intesa nella dimensione del Noi-tutti, quella che nell’elaborazione di ogni soluzione non lascia mai degli esclusi fra tutti coloro che sono «toccati» da quel problema. Questa è la morale anarchica che si realizza nella logica che guida una federazione di comunità libertarie autogestite secolarmente efficienti (Candela 2014; Candela, Senta 2017; Candela 2021), oppure lo spirito cattolico che afferma un «Noi grande, non piccolino», come vuole l’Economy of Francesco. Il Noi-tutti della morale anarchica e il Noi-grande di Fratelli Tutti sono totalmente differenti dal parochialism, che è il noi non di tutti ma di gruppi versus altri gruppi. È questa una logica del Noi profondamente diversa dal campanilismo, dal populismo e dal nazionalismo, che chiude i tempi della competizione e apre quelli della cooperazione, che sostiene l’affermarsi di una persona libera versus la coercizione del dominio dell’uomo sull’uomo, di gruppi su gruppi. Non l’uno contro l’altro ma l’uno con l’altro, tassello comune del pensiero libertario e della Dottrina Sociale della Chiesa.
Gianfranco Ravasi, nel suo «Breviario» («Il Sole24ore», Domenica, 10 marzo 2024) propone un’efficace sintesi tra pensieri diversi che hanno la comune esigenza di sposare una logica del Noi-tutti. Ravasi parte da una citazione del 1926 del Mahatma Gandhi, la «grande anima» vicina al pensiero dell’anarchia religiosa di Tolstoj (Tolstoj 2019), che comunque conosceva le idee di Kropotkin: «Se potessimo cancellare l’Io e il Mio dalla religione, dalla politica, dall’economia e così via, saremmo presto liberi e porteremmo il cielo in terra» (Gandhi 2019). Purtroppo però – afferma Ravasi – «alligna in politica, in economia, nella stessa religione e nell’esistenza personale l’erba maligna dell’interesse privato come norma unica ed esclusiva», in altri termini domina la logica dell’Io piuttosto che la logica del Noi. Mentre nel Vangelo – continua – è ben chiaro il monito di Gesù: «Se qualcuno vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso» (Mr 8,34); «Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv, 12,24). Dal nostro punto di vista, la logica di comunità è il tratto comune di certi pensieri dell’anarchia, l’anarchia socialista e l’anarco-comunismo, e di certe teologie della Chiesa cattolica, comunque è certamente ciò che si legge nella Dottrina Sociale della Chiesa.
Il testo si sviluppa attorno all’idea di un’antropologia della logica del Noi, divisa in tredici capitoli trattati in quattro parti. La Parte prima introduce i principi fondanti del pensiero libertario e anarchico, in molte delle sue tante articolazioni. La Parte seconda si sofferma su una ricostruzione storica delle idee libertarie, la storia delle eresie, fino all’anarco pacifismo e alla cosiddetta anarchia religiosa di Lev Tolstoj e Simone Weil. La Parte terza è dedicata al tema dell’economia e della persona nelle Sacre Scritture, Bibbia e Vangelo. La Parte quarta considera la storia della Chiesa cattolica seguendo le parole dei papi dal Medioevo fino all’Economy of Francesco.
Nel loro declinarsi in campo sociale ed economico, i due pensieri presentano vari punti d’intersezione, seppure di diversa natura: veri incontri, semplici sfumature, accostamenti puramente lessicali, coincidenze di fatto. Il libro vorrebbe suggerire riflessioni che scaturiscono da alcune delle intersezioni rilevate, che dobbiamo notare – come ogni pensiero in evoluzione – proseguono anche dopo la «consegna» all’editore del libro, giugno 2023. Vogliamo quindi riferirne due coincidenze recentemente riscontrate.
La prima riguarda la ripubblicazione del saggio autobiografico di Dorothy Day (Day 2023), con l’introduzione di papa Francesco. L’anarchica americana, che ha grande spazio nel libro, è stata proposta per la santificazione dalla Chiesa e dichiarata serva di Dio. Il Papa, dopo avere rilevato che il riferimento alla vita di Dorothy Day è stato sostenuto da Benedetto XVI, tiene a sottolineare la caratteristica interessante della sua vita: l’appartenenza al mondo dell’impegno sociale e sindacale, donando il proprio tempo al servizio degli altri (anche prima di giungere alla fede). Quindi – sostiene Bergoglio – Dorothy Day è una donna libera, un’attivista che dà il suo lavoro per «un amore che sovrasti l’odore nauseante dell’egoismo» (Day 2023: 12). La vicinanza di Day al pensiero anarchico è esplicitamente riconosciuta nella «Nota del curatore» di Robert Ellsherg: «Per anni [Dorothy Day] si era messa in una eclettica cerchia di socialisti, anarchici, letterari bohemienne e ribelli di ogni specie, uniti soprattutto dall’opposizione allo status quo e dal desiderio di un mondo migliore» (Day 2023: 17). Forse anche per questo, la conclusione di papa Francesco torna, infine, a livello teologico affermando che «Il Signore brama cuori inquieti, non anime borghesi che si accontentano dell’esistente» (Day 2023: 10).
Un secondo spunto di riflessione è il recente rilievo che hanno ricevuto alcuni brani di Laudate Deum di papa Francesco sul problema del clima: «Come al solito, sembrerebbe che la colpa [della crisi climatica] sia dei poveri. Ma in realtà […] le emissioni pro-capite dei Paesi più ricchi sono di molto superiori a quelle dei più poveri» (LD 1,9); sono infatti responsabili del degrado del clima le «grandi potenza economiche, che si preoccupano di ottenere il massimo profitto al minor costo e nel minor tempo possibile» (LD 1,13); per concludere che «si tratta di un problema umano e sociale in senso ampio e a vari livelli. Per questo si richiede un coinvolgimento di tutti» (LD 5,58). Alle sue affermazioni il Papa fa seguire la denuncia: «Sono costretto a fare queste precisazioni, che possono sembrare ovvie, a causa di certe opinioni sprezzanti e irragionevoli». Tuttavia, la sua denuncia non rimane generica, senza referenti, poiché il Papa conclude che tali opinioni le «trovo anche all’interno della Chiesa cattolica» (LD 1,14). Orbene, a completamento del nostro punto di vista sul pensiero comparato libertario e cattolico, è importante annotare che questi passi sono esplicitamente richiamati nel mensile libertario «Cenerentola» (novembre 2023), con il rilievo redazionale: «Se lo dice lui».
Sia perché non è facile l’interpretazione dei segnali raccolti nel libro – tuttavia non pochi – sia perché questi raffronti fra anarchia e cattolicesimo sembrano ancora in evoluzione, una conclusione sulle intersezioni dei pensieri libertari e cattolici è difficile da trarre. Forse non è neppure necessaria, per pensieri che credono entrambi nella libertà e nella diversità, che preferiscono sviluppare idee non ideologie, perché le ideologie sono sempre a rischio di imporsi, dato che pretendono di essere uniche e sono la «scusa» dei poteri dominanti: così si esprime l’anarchia (Malabou 2024), così si esprime la Chiesa: «la Chiesa non ha e non può avere ideologie» poiché le ideologie sono steccati che «amplificano odio e intolleranza» (Francesco 2024: 80 e 167). Cionondimeno, il libro chiama a riflettere su questo confronto a 58 anni dal Concilio Vaticano II (1963-1965) e con l’affermarsi di una corrente di pensiero libertario che si ispira agli scritti di Colin Ward apparsi sulla rivista «Anarchy» dal 1961 al 1970. Ward (Ward 2023) parla di un anarchismo pragmatico (e rispettabile) che non ha bisogno dell’ora «fatale» dell’insurrezione, ma che sa generare dal basso una diversa società, una rivoluzione progressiva e praticabile. È così che si può osservare quella convergenza effettiva di azione – di cui parlava don Milani – fra l’autogestione anarchica, un anarchismo organizzato in cui agiscono persone che prendono iniziative prescindendo dello Stato, e il rilievo che la Dottrina Sociale della Chiesa dà ai Corpi sociali intermedi, un livello di comunità in cui agiscono persone che prendono iniziative senza aspettare gli «incentivi» di Corpi sociali superiori. Per questo anarchismo e per questa teologia sociale, autogestione e Corpi sociali intermedi sono utopie capaci di un’effettiva rivoluzione lenta e progressiva. Ciononostante, gli anarchici, i libertari e la Chiesa dell’economia di Francesco danno un valore positivo all’utopia: l’ultimo comma del «Patto per l’economia di papa Francesco con i giovani» (2022), stipulato al termine del convegno di Assisi, afferma: «Noi in questa economia crediamo. Non è un’utopia, perché la stiamo già costruendo», e commentando il pacifismo anarchico di Maria Luisa Bernieri, Antonio Senta afferma: «I critici dell’idea anarchica mettono spesso in evidenza la dimensione utopica di quest’ultima, tuttavia per gli anarchici il termine utopia è, va da sé, tutt’altro che negativo […] è un processo che non conosce soste perché muove continuamente da un obiettivo al successivo» (Senta, Postfazione in Berneri 2022: 465). Tuttavia chiarendo che ciò è vero solo e solamente se le persone si muovono nella direzione delle utopie qui e subito. Infatti, se i tempi delle iniziative da intraprendere sono rinviati a un lontano futuro, le utopie per l’anarchia si trasformano in una menzogna immanente e per la Chiesa in un incanto rinviato a una futura vita trascendente, post mortem.
La violenza di Stato, Chiesa e anarchia è considerata esplicitamente nel testo, poiché questo è un tema che coinvolge la loro storia, verso cui non bisogna nascondersi. Anche in questo caso, l’arte aiuta a fare il punto su ciò che il libro sostiene. Il registra Ken Loach, vicino al pensiero libertario e al mondo di un lavoro umiliato e sfruttato – ricordiamo i suoi film «Terra e libertà» (1995) e «Bread and roses» (2000) – nella pellicola «Il vento che accarezza l’erba» (2006) avanza una drammatica descrizione della violenza che ha coinvolto i moti di indipendenza dell’Irlanda del Nord. A Loach la violenza appare «inevitabile» nel conflitto di ideologie di Stato, tuttavia la sua posizione diviene chiara nella scena finale, allorché un messo annuncia a una donna, mentre è al lavoro nella sua casa e sulla sua terra – una donna che in precedenza aveva subito aggressione e oltraggio – annuncia l’orribile violenza di un fratricidio «politico». La donna reagisce affermando: «Va fuori dalla mia terra», rivolto all’uomo che in quel momento rappresenta fisicamente la violenza. Allora, coniugando l’anarchia pacifista e religiosa con l’enciclica Fratelli tutti, vorremmo virare al generale, particolarmente in questo tempo di guerra mondiale diffusa, l’urlo di rivolta di quella donna contro la violenza: «Vai fuori dalla nostra Terra», dove la «mia» cambia in «nostra» perché la terra è quella con la T maiuscola, la terra di Noi-tutti. È questa la logica di un noi totale e solidale che può eliminare l’egoismo, che è il tratto comune di ogni violenza. In un recente numero di questa rivista (2023, n. 6), i redattori della casa editrice elèuthera di Milano – un editore di «ispirazione libertaria» – hanno affermato che il fine del loro lavoro è riportare l’anarchismo nel presente per «permettere alle voci anarchiche di risuonare forti e chiare al di fuori delle mura del ghetto (un ghetto in cui peraltro non ci hanno rinchiuso, ma in cui ci siamo rinchiusi)». Parlare quindi con l’antropologia, la sociologia, l’ecologia, l’economia, la biologia per riscontarvi concomitanze. Questo è proprio quello che il libro vorrebbe fare per l’economia, la sociologia e l’antropologia, partendo da pensieri minoritari, come quello libertario e quello cristiano-cattolico.
Nel parlare con l’economia, la proposta del libro è di muovere dall’economia del homo oeconomicus verso un’economia antropologica, dove acquista spazio una ricerca che trae spunti di analisi dall’antropologia. Assumendo così una visione più ampia di quella di una persona mossa in economia politica dal self interest e in politica economica di uno Stato che agisce come uno Stato benevolente. L’economia antropologica, infatti, deve considerare la persona motivata dall’esclusivo interesse dell’Io ma anche dell’altruismo del Noi, fra cui ci sono l’uomo e la donna che perseguono l’etica religiosa o l’etica della morale anarchica… e quanto altro. Modelli diversi che studiano, comparandole, logiche di comportamenti e di società diverse per vedere dal confronto chi, avendo fatto scelte differenti, «si troverà peggio» (Malatesta 2009), ovviamente in termini di felicità e non di Prodotto Interno Lordo (PIL).
Un’economia antropologica, dunque, che sviluppi modelli in cui intervengono lo Stato o l’autogestione, lo Stato benevolente (di tutti) o malevolente (di alcuni contro altri), il mercato o il dono, la competizione o l’aiuto reciproco, la proprietà o i beni comuni, e che possa trarre spunto anche dal pensiero libertario e dal pensiero religioso, quindi conservando gli strumenti analitici dell’economia ma evitando la trappola del riduzionismo antropologico (Candela 2021).

Canaglie senza ideologia: l'anima ribelle degli chansonnier

È stato scritto che la canzone è radicalmente cambiata con l’avvento della sua dimensione d’autore che l’ha trasformata in qualcosa di unico e personale, che ne ha acceso lo spirito civile e libertario. In modo particolare nella prima stagione francese e in seguito anche in quella italiana, non a caso è quasi impossibile separare il repertorio, l’esperienza e il canto dal sentimento politico o sociale perché questo miscuglio di passioni vitali i francesi l’hanno adottato come una sorta di resistenza anarchica, segnata fra Giovanna D’Arco e la Paris Canaille. Infatti i primi riferimenti di questa schiera di cantautori vanno molto indietro nel tempo, ad Aristide Bruant, il padre degli chansonnier, perché già nelle sue canzoni si affacciavano maudits animati da uno spirito tragico, melanconico e barricadero. Ma poi anche tutta la schiera di «cantautori», Brel, Ferrè, Trenet, Vian, Brassens, Gainsbourg la stessa Piaf e i suoi fedeli Bécaud e Aznavour, ha ereditato quei sentimenti rileggendoli in modo personale e profondamente diverso uno dall’altro pur condividendo lo stesso spirito anticonformista. Operaio alla Renault di Parigi, Georges Brassens è stato anche uno dei più chiaramente ispirati da sogni libertari, arrivando a una narrazione ironica e tagliente dopo una forte passione per i testi fondamentali della letteratura francese che lo ha portato alla scrittura di brani ripresi da poeti celebri come Francois Villon (Ballade des dames du temps jadis), Victor Hugo (Gastibelza), Paul Fort (Le petit cheval). È nel 1946 che cominciò la sua collaborazione a «Le Libertaire», rivista anarchica che lo mantenne legato a questi ideali per tutta la vita e che Brassens esprimerà con un sentimento di protesta attraverso l’irriverenza delle canzoni, la volontà di lottare contro l’ipocrisia della società e le convenzioni sociali. Nei testi la sua posizione politica è stata molto decisa quando prendeva posizione in favore degli emarginati, degli ultimi e contro ogni tipo d’autorità costituita, in particolare contro le figure del giudice e del poliziotto intese come immagini simboliche della giustizia ingiusta, basta dare un’occhiata al testo di Le gorille (Il gorilla) ripreso in italiano dal suo ammiratore Fabrizio De Andrè. Poi venne la stagione nel cabaret nei locali di Montmartre, in particolare il Chez Patachou anche se all’inizio solo come autore e non come interprete. Il 1953 fu anche l’anno di pubblicazione del romanzo La tour des miracles, poi venne l’accusa di disfattismo e «revisionismo storico» per Les deux oncles, la canzone antimilitarista segnata da un tono anarco-individualista che ruotava intorno alla vicenda metaforica di due zii immaginari.

La cura come principio organizzatore della società: una lettura del "Manifesto della Cura" di The Care Collective

Di critiche al neoliberismo se ne sono prodotte tante, tantissime negli ultimi decenni, in alcuni casi accompagnate da proposte alternative che vanno dal timido riformismo alla rivoluzione radicale. Il Manifesto della cura è una di queste. La sua particolarità sta nel fatto di utilizzare come centro della riflessione critica e della proposta concreta il concetto di cura. Autore del Manifesto è il gruppo The Care Collective, un collettivo inglese composto da persone del mondo accademico e dell’attivismo sociale. Fin dalla sua nascita, anno 2017, il gruppo di studio si è occupato della «crisi della cura» e con la pandemia, durante la quale le questioni legate alla cura sono diventate centrali, ha condensato le sue riflessioni nel Manifesto.